Regia di Marie Grahtø vedi scheda film
Viktoria, ricercatrice esperta nel campo del suicidio, viene chiamata dalla dottoressa Klein, responsabile di una clinica psichiatra, per seguire da vicino il caso di Jenny, una giovane ospedalizzata per la settima volta. Aspirante suicida, Jenny vive in un mondo tutto suo: abituata da sempre a far tutto da sola, considera l’ospedale come la sua casa. Durante quest’ultimo ricovero, Jenny si rifiuta di dormire per paura di ripetere un incubo che la tormenta: salta e muore non una volta ma più volte. Affetta da psicosi varie, teme inoltre che stia per accadere qualcosa di grande e significativo: non sa da dove nasca la sua psicosi ma la porta a non voler chiudere occhio.
In una clinica allagata da continua luce, ora bianca ora blu, Jenny ha trovato la sua perfetta metà in Zarah, un’altra ragazza interrotta con cui vive in simbiosi. Insieme, Jenny e Zarah si capiscono, condividono giochi e parlano un linguaggio complice di cui solo loro paiono conoscere la grammatica. Secondo Viktoria, il suicidio è un mezzo per mettere in evidenza il dolore della propria mente e non occorre molto tempo prima di capire che non tutto nei personaggi è così semplice come sembra. Imprigionata in rigide ottocentesche camicie a collo alto, Viktoria mostra durante un bagno segni che nello spettatore causano allarme.
Psychosia di Marie Grahtø gioca su un’affascinante dicotomia che divide gli esseri umani in due grandi categorie. Secondo un libro dal titolo Le facce dell’Io freudiano, pubblicato da Mikkel Reher-Langberg, gli esseri umani sono fatti di energia. Tale energia si diffonde attraverso due differenti circuiti: l’Ideale e il Desiderio. Si tratta nella fattispecie di due forze costantemente in lotta, che tendono a prevalere l’una sull’altra. Esistono esseri umani più propensi all’Ideale, come la dottoressa Klein con la sua mente razionale e il suo sguardo freddo, e altri che invece tendono al Desiderio, come Jenny, non facilmente etichettabile. Esiste tuttavia una terza specie di esseri umani il cui mondo interiore è collassato sotto i colpi della guerra tra Ideale e Desiderio. Ed è di questi esseri umani che la regista vuole raccontare, avendo vissuto in prima persona durante gli anni della giovinezza un ricovero in un reparto psichiatrico a causa di diversi episodi psicotici che si tramutavano in desiderio di porre fine alla propria vita. Il collasso del mondo interiore è quello che caratterizza la dottoressa Viktoria, la cui figura in un primo momento sembra porsi esattamente a metà strada tra quella della dottoressa Klein e quella di Jenny.
Perdere il controllo della propria mente vuol dire anche perdere la cognizione della dimensione spazio-temporale. La struttura voluta dalla regista è allora prettamente non lineare per evidenziare come passato, presente e futuro, si fondano senza distinzione alcuna. Non è più facile capire cosa è accaduto, cosa sta accadendo o cosa accadrà: i confini della psiche si alterano e lasciano spazio alla fantasia (da qui si spiega il titolo, da psicosi a fantasia). Nessun luogo è più tale, nemmeno il proprio corpo: da esso si può mentalmente uscire o prenderne le distanze. Tutti i posti così come li conosciamo assumono nuovi significati e nuove funzioni: un ospedale psichiatrico sembra una clinica del benessere, un bagno si tramuta in cucina, un colore in sangue e un lungo corridoio in una pista per biciclette. David Lynch è ovviamente dietro l’angolo ma non solo lui. A livello estetico, la Grahtø segue i percorsi tracciati da autori come Gerald Kargl, Dario Argento o Carlos Reygadas, per spingersi fino a modelli ancora più alti come Ingmar Bergman (al cui Persona e alla sua essenzialità espressiva deve molto), Carl Theodor Dreyer e Jean Cocteau, per discernere filosoficamente e pindaricamente della letteratura psicoanalitica di Freud, Lacan e Klein. Nei dialoghi si avvertono echi di Nietzsche e persino della famosa disputa sul tempo tra Henri Bergson e Albert Einstein, che discutevano della differenza tra tempo soggettivo e tempo scientifico.
La regista trasferisce dunque sullo schermo concetti che non riguardano prettamente l’esistenza umana ma che possono estendersi anche all’arte del Cinema. La sofferenza mentale si trasforma nelle sue mani in alterazione visiva, in battaglia tra ordine e caos. Contribuiscono a ciò anche i movimenti di camera: inquadrature piatte si susseguono ad altre avulse, primissimi piani fanno da contraltare a campi lunghissimi, slow motion e fast motion convivono nel giro di pochi frame. Le immagini si alienano al pari dell’alienata protagonista. Chi sono e Dove sono diventano le uniche due domande che l’alienazione comporta, sia in scena sia fuori scena. Può sembrare un paradosso ma il film va oltre lo schermo e diviene seduta terapeutica, opera d’arte e sfida a Dio, come l’ultimissima immagine sottolinea.
Per finire, Psychosia è uno di quei lavori che non potrebbe mai esistere senza le sue attrici. Nei panni della dottoressa Kleine, Trine Dyrholm dimostra di essere ancora la migliore attrice danese in circolazione, ma la sorpresa vera è data da Lisa Carlehed, attrice svedese quarantenne che, sebbene abbia pochissime esperienze alle spalle, non ha nulla da invidiare alla caratura di Isabelle Huppert. Tra le due si insinuano le giovani Victoria Carmen Sonne e Bebiane Ivalo Kreutzmann, interpreti dei personaggi di Jenny e Zarah: conturbanti come solo le gemelle di Shining prima di loro.
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