Regia di Paolo Taviani, Vittorio Taviani vedi scheda film
Due episodi (Felice e Due sequestri) tratti da novelle di Pirandello (Tu ridi e La cattura; ma il primo è integrato con elementi di altre novelle, L'imbecille, Sole e ombra, E due! e con episodi di teatro lirico, il secondo inserito in un secondo sequestro, preso da un fatto di cronaca); nel primo Felice (Albanese), ex-baritono ridotto ad impiegato amministrativo del teatro lirico, vede ogni giorno il direttore con due collaboratori (immagine di un gerarca fascista con due guardie del corpo) tormentare un suo collega zoppo, facendolo ruzzolare per la scalinata che tutti percorrono per arrivare al teatro. Felice ne è indignato, ma di notte ride sempre per un sogno che non riesce a ricordare, finché, svegliato all'improvviso, lo ricorda: ride per lo scherzo crudele fatto all'amico; ne ha vergogna, tanto più che proprio quel giorno l'amico si è ucciso; decide di uccidersi anche lui, ma sente il direttore dire che quello è stato imbecille ad uccidersi senza prima vendicarsi di lui; allora Felice lo segue fino a casa, lo minaccia con la pistola (che poi regala ad un bimbo che ci gioca, facendo capire al pubblico che è un giocattolo e quindi confermando viltà e stupidità del direttore atterrito e umiliato), gli fa scrivere una lettera in cui si confessa vile e stupido, la mette in tasca e va ad uccidersi; ma prima trascorre una piacevole giornata piena di ricordi e di gioie, in cui finalmente canta ancora.
Il racconto del sequestro attuale, del figlio di un mafioso "pentito", trattato bene e quasi con amicizia dal suo carceriere (Lello Arena), che alla fine lo ucciderà e butterà nell'acido (ma l'esito è appena suggerito a chi conosce il fatto di cronaca), è forse volutamente meno "ispirato" di altri racconti dei Taviani, più asciutto, velato sempre dal finale tragico che sembra previsto e atteso dal ragazzino fin dall'inizio, in netto contrasto anche stilistico con il racconto antico, favoloso, narrato dal carceriere, di un sequestro avvenuto cento anni prima su quei monti (quello del racconto di Pirandello), di un ricco dottore (Turi Ferro) sequestrato da tre fratelli pastori per ottenerne il riscatto dai parenti che però non pagano: riconosciuti dal dottore, non possono più lasciarlo libero, devono trattenerlo a vita, sia pure con rispetto e attenzione. Il vecchio padre dei tre si fa portare a spalla da un figlio per spiegare al prigioniero la situazione ed assicurare un buon trattamento, in un incontro da vecchi patriarchi che può ricordare quello tra Griffith e il padre dei due scalpellini in Good morning Babilonia. Il dottore cura, educa e istruisce i tre, poi gioca con i loro numerosi bimbi nati e cresciuti nel frattempo; quando si presenta l’occasione (una comitiva di turisti che passa nelle vicinanze, mentre il suo carceriere dorme) rinuncia a fuggire, perché ormai sente come sua famiglia questa e non la propria che ne aspetta solo la morte per ereditare; quando muore, i tre rapitori lo piangono… Un racconto sereno e a tratti quasi gioioso, come quando il vecchio prigioniero gioca a mosca cieca con tutti i bimbi, bendato come quando era stato rapito, e trova a tentoni il volto di una madre, e si sbenda e si guardano. Anche il carceriere mafioso nell’episodio contemporaneo si affeziona al ragazzino, ma non esita a ucciderlo e buttarlo nell’acido quando riceve l’ordine di farlo: il racconto antico assume un sapore di fiaba per confronto con la brutalità odierna.
Il film è denso di poesia; gli episodi poetici, le belle invenzioni visive, sono tante, ma è soprattutto l’atmosfera generale del film che colpisce per coerente delicatezza nel toccare i temi più universali dell’uomo, cari ai due fratelli registi ed a Pirandello: il film è giocato fra vita e morte, odio e amore, paure e coraggio, ideali e violenze quotidiane, in alternarsi di battute sorridenti e di episodi amari. Con frequenti suggerimenti di esiti diversi da quelli che poi arrivano, perché la vita (e l'arte narrativa) è imprevedibile. Rivisto dopo molti film di livello medio, ti accorgi ad ogni inquadratura dell’abisso che c’è fra film come questo e quelli; ogni volta lo apprezzo di più; è vero che “vi si respira un'aria stanca”, come denuncia Film.tv, ma è stanchezza del vivere in consapevole attesa della morte, accentuata dalla vivacità gioiosa improvvisa dei brevi momenti che precedono la morte, di Felice e del dottore.
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