Regia di Alex Proyas vedi scheda film
Il tempo è un elastico che tende verso un’infinita illusione, la spazio ha l’apparente e solida struttura di una grande città, palazzi imponenti dallo stile retrò, strade che rigurgitano automobili e una vita che scorre frenetica come in tutte le metropoli.
Tutto nella norma si direbbe ma niente a Dark City si può definire normale, un luogo indefinito e dalle coordinate mutevoli dove la popolazione è ignara protagonista di un esperimento senza fine, come topi in labirintici percorsi verso il nulla.
Questa città vive una notte eterna ma nessuno se ne accorge, le menti sono manipolate da un abile artificio e le vite sono squallide finzioni create in laboratorio, dietro l’invisibile inganno ci sono gli Stranieri, una razza aliena vicina all’estinzione che studia la natura umana cercando di sfuggire ad un destino già scritto.
John Murdock (Rufus Sewell) si risveglia senza memoria dentro un vasca da bagno, lui non lo sa ma è reduce da una fallita procedura di imprinting, lavaggio del cervello, cancellazione di una vita (una delle tante) e inserimento di un altra, John ha sviluppato dei poteri psicocinetici molto potenti, forse è l’unico in grado di contrastare il dominio degli Stranieri.
Ricordo che la prima volta che vidi Dark City rimasi affascinato dalla storia ma letteralmente conquistato dalle scenografie e dalla fotografia, protagonista assoluta era questa città avvolta dalla notte che era un chiaro omaggio ai vecchi classici del noir e del poliziesco (il titolo omaggia il Dark City di William Dieterle - 1950), solo che stavolta il contesto virava decisamente verso la fantascienza.
Nelle sale il film di Alex Proyas passò quasi inosservato ma la critica lo premiò in diversi festival di genere, io me ne innamorai subito tanto da farlo diventare un mio personale cult-movie, uno di quei film da custodire gelosamente, magari ignorando gli aspetti meno convincenti.
Rivisto oggi a distanza di tanti anni (almeno venti) le sensazioni sono un po’ diverse, succede quando torni su opere che hai particolarmente amato, alcuni degli elementi vincenti che al tempo ne facevano una pellicola di grande interesse sono ancora determinanti, l’ambientazione e l’atmosfera prima di tutto, ma anche la storia che di fatto anticipa di un anno la filosofia della matrice Wachowskiana.
La regia di Proyas, fortemente legata al periodo, si fa ancora apprezzare, in questo caso lo stile videoclippettaro contribuisce al senso di spaesamento che è proprio dei personaggi ma anche dello spettatore, un effetto straniante che resta uno dei maggiori pregi del film.
A segnare il passo sono gli effetti speciali ma questo rientra nell’inevitabile, meno accettabile invece uno sviluppo della seconda parte a tratti confuso e ripetitivo, oltre ad un finale traballante che sinceramente ricordavo migliore.
Rufus Sewell è un protagonista poco espressivo ma comunque convincente, Jennifer Connelly toglie semplicemente il fiato per la sua avvenenza, William Hurt fa il suo in un ruolo di secondo piano mentre spicca su tutti un viscido Kiefer Sutherland in versione medico nazi, godendo di una visione in lingua originale ho particolarmente apprezzato il suo lavoro sulla dizione, lo stesso fatto dagli attori che interpretano gli Stranieri, lavoro che nel doppiaggio italiano si perde completamente.
Il passare degli anni ha tolto un po' di brillantezza al film ma non ha intaccato il suo fascino estetico e una certa vigoria narrativa, non era un capolavoro al tempo e tanto meno lo è oggi ma resta il miglior film di un Alex Proyas da tempo ormai bollito (Il Corvo fa storia a sé per evidenti motivi).
Con convinzione me lo tengo ancora nella mia lista dei cult-movie.
Voto: 7.5
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