Regia di J Blakeson vedi scheda film
Sto leggendo giudizi eccessivamente drastici, a mio avviso, circa I Care a Lot.
Un film – di una cattiveria inaudita – sul potere, sugli effetti collaterali che l’intraprendenza può generare, sull’eterna lotta contro il prossimo nella giungla contemporanea. La protagonista, Marla, è una tutrice legale affidata dallo Stato ad anziani considerati non più capaci di intendere e volere. Lei ‘tiene molto’, come sostiene il titolo dell’opera, alle vite di cui si occupa professionalmente, anche se non nella maniera che si penserebbe: Marla è una truffatrice, approfitta delle debolezze dei suoi assistiti per arricchire sé stessa. Un sistema losco, del tutto putrido, eppure legale, sunto di una società corrosa dal capitale, ciò a cui Marla interessa davvero. Ella è una leonessa, una predatrice, adepta del dio denaro, fiera creatura generata da un apparato nel quale impera esclusivamente chi detiene quel potere materiale e chi ne ha insaziabilmente sete e lo brama. Si considera perennemente superiore, tanto scaltra da poter competere e avere la meglio non solo su quei poveri agnelli consumati, ma persino su un ex-boss della mafia russa, figlio della sua ultima cavia. Prenderà il via così un duello fra le due facce (o è forse la medesima?) della stessa medaglia a colpi di spietatezza, un tallonamento fra predatori che non intendono mollare l’osso e rinunciare al proprio telos. Il film è costruito e si muove sulla costante immoralità dei personaggi, privi di alcun briciolo di umanità, cui è impossibile provare una qualche forma di empatia (e non era certo quello l’intento). J Blakeson scrive e dirige attingendo da plurimi fonti, da Scorsese ai Coen, da Tarantino a McDonagh, impostando un racconto drammatico con tendenze dark humor (il modus operandi dei caratteri può suscitare delle reminiscenze di un Seven Psychopaths, per esempio).
Analogamente al recente Pieces of a Woman, le redini del film sono affidate alla sua interprete protagonista: Rosamund Pike è incredibile, un’attrice terrificante, apatica, glaciale, quasi esanime, capace di risultare al contempo confortevole e inesorabile, solare e diabolica (Hitchcock ne sarebbe uscito pazzo). La sua Marla è quasi una prosecutio spirituale della Amy di Gone Girl: guardandola, immaginiamo di aprirle quel cranio perfetto e srotolarle il cervello in cerca di risposte alle sue azioni infime. La sua carica intensa, come la personificazione di una furia, non lascia superstiti, nemmeno la “nemesi” del notevole seppur caricaturale Peter Dinklage.
Ciò nondimeno, al di là di tutto (e il finale lo conferma), Marla è solo una pedina di un organismo ben più grade e marcio di lei, del quale ella ne è solo un prodotto infinitesimale. Infine, si raccoglie ciò che si semina... o quantomeno ci si illude che così sia.
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