La recensione su Moebius

Quando un convoglio della metropolitana di Buenos Aires scompare misteriosamente, il giovane topologo Daniel Pratt viene chiamato a risolvere il mistero sulla base dei vecchi progetti del suo ex professore: i soli in grado di dipanare l'intricata matassa di tunnel, nodi e intersezioni che si sono sviluppati in maniera abnorme dall'iniziale planimetria costruttiva. Pressato dall'ansioso direttore Blasi e con l'aiuto dalla disinvolta adolescente April, lo studioso individuerà nella presenza di una intricata singolarità geometrica la causa del loop senza fine in cui sembra esseresi cacciata la tradotta desaparecida.

Ma la Topologia è la scienza che studia i ratti delle metropolitane? 

Chirale, non orientabile, dal bordo e dalle superficie che non ammettono soluzioni di continuità, facilmente sviluppabile e dalla sorprendenti immersioni tridimensionali a più riprese sfruttate dall'estro di artisti affascinati dalle sue implicazioni figurative, il famigerato nastro a forma di infinito, dopo aver frequentato perfino la biochimica (aromaticità degli orbitali atomici di alcune molecole organiche e struttura dei ciclotidi aminoacidi in un analgesico utilizzato nell'ostetricia tradizionale del Congo), la musica (Canone a 2 cancrizzante dell’Offerta musicale di Bach) ed il teatro (La Cantatrice calva di Ionesco), non poteva non influenzare la letteratura fantastica nel libro (Una metropolitana chiamata Mobius) dell'astronomo e matematico Armin Deutsch che, come i suoi ben più esimi colleghi ottocenteschi Listing e Moebius, rimase avviluppato dalle sue strabilianti e metafisiche proprietà topologiche.

Nato come soggetto di un racconto giallo dove hard-sci-fi, furore combinatorio e speculazioni filosofiche confluiscono in modo quasi naturale, il suo adattamento cinematografico rappresenta in realtà il paradigma di un progetto accademico low-budget che dalle aule della Universidad del Cine approda prima in svariate rassegne cinematografiche e quindi al più ampio circuito distributivo internazionale, trasfigurandone lo spirito originario attraverso una messa in scena dove paturnie esistenzialiste e tavolozze cromatiche virate al blu, ripropongono l'ennesima variante di una recriminazione politica che nemmeno nel rinnovato slancio economico dell'Argentina dei primi anni novanta sembra trovare la sua agognata pacificazione civile. Insomma la gente scompare nel nulla e sappiamo benissimo di chi è la colpa, salvo scoprire che la fuga verso il punto zero di un eterno ritorno circolare può rappresentare l'unica possibile forma di evasione da una realtà di repressione individuale e vessazione morale tra le cui invisibili pieghe sembra prefebile rifugiarsi o scomparire.

Tra retro-futuribili tecnologie dei trasporti e la primigenia astrazione di inestricabili loop spaziali; tra il dentro delle sue infinite potenzialità e il fuori delle sue limitate geometrie architettoniche, tra i circoli viziosi di aggrovigliate topologie sotterranee e l'aria buona di futuribili prospettive metropolitane, si mette in scena una bizzarra detection fanta-noir di ispirazione kafkiana cugina povera della ciudad brasileira del Gilliam di un decennio prima e tutta giocata sull'ineffabile confine tra escatologia e determinismo: una sfida in cui la razionalità del pensiero matematico è chiamato a dischiudersi sullo sprofondo degli insondabili misteri della coscienza umana. Non privo di evidenti limiti nel raccordo logico della storia e nelle reali possibilità di sviluppare un soggetto troppo complesso rispetto ai mezzi a disposizione, conserva l'interesse di un film sperimentale che gioca a rimpiattino col soggetto e con le finalità didascaliche della propria genesi:  saggio accademico di ex allievi di una scuola di cinema che narra di un ex allievo chiamato a risolvere un mistero che fa capo al proprio maestro e la soluzione del quale condusse un altro maestro ad ispirare il lavoro di due ex allievi che lo risolsero all'unisono, benchè all'oscuro l'uno dell'altro: misconosciuti pionieri della topologia ottocentesca che percorrevano la stessa superficie di un nastro senza fine e per questo destinati a non incontrarsi mai, se non nelle cronache postume che resero negletto il legittimo autore e diedero lustro imperituro al nome accattivante del collega che ne meritava assai meno.

Un Francesco Bulckaen dall'aria stropicciata, con l'impermeabile d'ordinanza e lo sguardo assorto che vaga per treni scarabocchiando oscure formule su di un taccuino logoro; novello Caccioppoli sudamericano che ha conservato l'amara disillusione del Carlo Cecchi di qualche anno prima e che, come questi, preferirà scomparire piuttosto che tollerare l'insulso bestiario civile a cui si è ridotta la vita pubblica, in quella dicotomia tra razionalismo e ottusità burocratica quale metafora di una  regressione culturale modernista, ma anche sottile allegoria di una subalternità politica di un popolo di desaparecidos che troppo presto qualcuno si stanchera' di cercare.

 Premio FIPRESCI alla Viennale 1997. 

Adda passà 'a nuttata