Regia di Carlo Verdone vedi scheda film
La mantenuta Federica (Nancy Brilli, vagamente invecchiata) organizza una rimpatriata coi vecchi compagni di liceo a quindici anni dall’esame di maturità. Gruppo di trentacinquenni, in crisi, in un interno: il professore di lettere in una scuola privata, frustato dalla vita coniugale che cerca la felicità con una sua alunna (Carlo Verdone in uno dei ruoli più complessi del suo percorso: “ti prendo a selciate!”); due compagni di scuola che si sono sposati e si sono lasciati a causa della superficialità di lui (il bravo Piero Natoli ed Eleonora Giorgi); altri due che non si sono mai rivelati il proprio amore reciproco (Giusi Cataldo e Giovanni Vettorazzo); la psicologa che, a forza di risolvere i problemi degli altri accantona suoi (una maestosa Athina Cenci, David di Donatello come non protagonista); l’ex divo delle tv private, squattrinato e patetico (il miglior Christian De Sica di sempre: “delicatissimi!”).
E poi: il sottosegretario tossico e borioso (Massimo Ghini viscidissimo); un giudice che si spaccia per paralitico pur di divertirsi con l’amico ginecologo (un curioso Alessandro Benvenuti e Maurizio Ferrini); il logorroico secchione che parla anche nel sonno (l’abile Luigi Petrucci: “io sono stato e sarò sempre un crociano convinto”); un macellaio rozzo ed arricchito (il clamoroso Angelo Bernabucci: “è teribbile!”); due zitelle acidelle (Carmela Vincenti ed Isa Galinelli); una ragazza madre (Luisa Maneri); un commercialista con peacemaker (Silvio Vannucci); uno che nessuno riconosce a causa dei suoi cambiamenti fisici (il memorabile Fabio Traversa: “io non sono nessuno”). Emergono i lati peggiori di persone che non hanno più nulla in comune, se non il passato. A nessuno è destinato un lieto fine.
Snodo fondamentale nell’ambito della commedia italiana degli anni ottanta, bilancio di una leva di attori emersi in quel decennio e vertice dialettico tra malincomicità e saggezza (alla sceneggiatura ci sono Leo Benvenuti e Piero De Bernardi), resta a tutt’oggi il capolavoro di Carlo Verdone. Film polifonico ed eterogeneo, con una regia mobile e pulita capace di coordinare un coro di venti interpreti quasi tutti (non) protagonisti in un equilibrio di affetto generazionale (riferimento: Il grande freddo) e cinismo nostrano (riferimento: La rimpatriata), può essere letto tanto come una commedia drammatica amarissima quanto alla stregua d’un dramma brillante con elementi d’umorismo nero.
La chiave, forse, sta nel maggiordomo servile che recita Lorenzo il Magnifico (“quant’è bella giovinezza che ci fugge tuttavia…”), da leggere in parallelo con la sequenza dell’incontro di Verdone col suocero “mignottaro” (un cammeone spettacolare di Gianni Musy). Più che il ritratto di una generazione un po’ persa nei propri miti e riti (diciamo i nati negli anni cinquanta), è la proiezione attendibile e credibile della Roma borghese alla prova della maturità. Tessuto musicale evocativo che assume una dimensione più triste che nostalgica per la sua unità di luogo vagamente decadente (ma anche la puntata marittima è assai malinconica). Film capitale, seminale, sottovalutato, sottostimato.
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