Regia di Raúl Ruiz vedi scheda film
“Certi pomeriggi vorrei imbarcarmi e partire senza meta e in silenzio allontanarmi da qualunque porto, mentre il giorno muore.”
Avviato già dalla fine degli anni 60 e definitosi nel corso del decennio successivo, il cinema di Raúl Ruiz si impose prepotentemente alla coscienza della critica internazionale in occasione del riconoscimento tributatogli dai Cahiers du cinéma con il numero speciale del marzo 1983. L’anno era quello della doppietta che lo avrebbe consacrato agli occhi dei cinefili di tutto il mondo come uno degli autori più peculiari e innovativi della settima arte: quella de Le Tre Corone del Marinaio e La Città dei Pirati.
La visione de La Ville des Pirates (titolo programmaticamente fuorviante, accompagnato dal sottotitolo in latino Rusticatio Civitatis Piratarum) è un’esperienza che ha davvero pochi eguali in ambito cinematografico e s’imprime piuttosto nella memoria con la potenza e la nebulosa nitidezza dei lacerti di materia onirica che sopravvivono alla veglia. Si tratta con tutta evidenza di un cinema della surrealtà, che mira a riprodurre le dinamiche irrazionali - o meglio, governate da un sistema intrinseco ed autonomo di principi - del processo onirico, che si dispiega inanellando immagini e suoni per libere associazioni, affinità formali, remote similarità semantiche, arditi voli pindarici. Il film si presenta pertanto come un’ammaliante visione ipnagogica dalle cadenze lente e suadenti, una raffinata danza di forme ipnotiche e impalpabili scandita da sussurri e mormorii pronunciati a fior di labbra. L’oscurità criptica e l’ermetismo del linguaggio adottato, fino al limite dell’esoterico, la struttura labirintica e priva di un solido perno centrale, il citazionismo artistico e letterario debordante, il profluvio di simboli, metafore, allegorie ed emblemi ne fanno un’opera enigmatica e affascinante, intrisa di un’aura di arcano mistero che ha un che di borgesiano.
Proviamo a sviscerare pian piano la caterva di riferimenti e modelli che soggiacciono al film e al suo immaginario. Innanzitutto fioccano le citazioni esplicite a personaggi storici e/o letterari: Dorian Gray, Atahualpa, Filippo II di Spagna, Don Sebastian re di Portogallo, Egill Skallagrímsson, Peter Pan, Michele Strogoff, Hotu Matu’a, che già tratteggiano un immaginario variegato e composito, ma in cui l’elemento ispanico appare predominante. Per la precisione il riferimento è all’Iberia di fine Cinquecento, che si avviava sul viale del tramonto economico-politico sull’onda lunga della scoperta dell’America e poi della sconfitta dell’Invincibile Armata, ma nel frattempo viveva i fasti culturali da tardo impero del Siglo de Oro. L’intero film è pervaso infatti da un’atmosfera decadente e malinconica, come nostalgica di un florido passato ormai perduto e rassegnata all’inevitabile trascorrere ciclico delle ere. Le prime parole che sentiamo mormorare fuori campo - “Ouvre la porte. Il est de retour.” - sullo sfondo di un mare in tempesta, tra le strida dei gabbiani, introducono subito questo sentire nostalgico: un sentire riconducibile al concetto tipicamente galego-portoghese di saudade. Le voci over che si incaricheranno di commentare a posteriori ogni avvenimento, dalla prospettiva della morte, manterranno vivido tale sentimento per tutto il resto del film, così come le splendide partiture di Jorge Arriagada e le numerose canzoni intonate dai personaggi, tra le quali spicca la struggente J’ai deux amours di Joséphine Baker.
Il Cinquecento - spagnolo e non - ritorna anche sul piano figurativo, tra puntuali criptocitazioni (ad es. l’Arcimboldo, nella testa che fa capolino tra le verdure) e un generale gusto manierista ravvisabile nella tendenza alla deformazione del punto di vista e nell’accentuata sensibilità cromatica e luministica. Le inquadrature de La Città dei Pirati sono vere e proprie opere pittoriche accuratamente predisposte: la composizione raggiunge livelli inauditi d’inventiva e virtuosismo, con la dislocazione del punto macchina nei luoghi più impensati (dall’interno di una bocca verso l’esterno, da sotto il pavimento verso l’alto ecc…), la disposizione degli elementi interni al quadro secondo schemi e prospettive inusuali (dettagli in primissimo piano che interagiscono con elementi sullo sfondo, secondo un uso della profondità di campo da far impallidire Welles) e l’utilizzo di movimenti di macchina ugualmente bizzarri (una carrellata laterale che segue il dettaglio di una mano in controluce che regge un uovo!), mentre una fotografia camaleontica sperimenta le più svariate soluzioni espressive, spaziando da lividi bianchi e neri metallici a granulose tinte pastello, dall’effetto liquido e acquerellato di certe marine ai ricami luccicanti e agli sfumati di molti primi piani, fino ai viraggi squillanti e alle cromie ipersature che infiammano le sequenze più surreali. L’orizzonte figurativo del film innesca dunque un corto circuito iconografico tra le più eterogenee componenti: El Greco e Tintoretto, ma anche Leonardo da Vinci, Turner, Constable, l’Espressionismo (si pensi solo all’uso insistente di silhouettes proiettate sulle pareti) e, ovviamente, il Surrealismo, che trova un preciso riscontro iconografico nelle ricorrenti finestre spalancate sul mare à la Magritte.
Quanto al suo essere un film surrealista, La Città dei Pirati non si limita a sviluppare una struttura antinarrativa, alogica e mimetica delle dinamiche del sogno, procedendo per libere associazioni (un esempio su tutti la fantomatica Isola dei Pirati identificata prima nel bacio impresso su una guancia e poi in un pezzo di cervello in una pozza di sangue) o esibendo arcane simbologie (l’Isola stessa, l’anello del vescovo, la battaglia nel giardino allegorico), ma recupera persino le tecniche di emersione dell’inconscio elaborate e sperimentate dall’avanguardia surrealista degli anni 20, come la scrittura automatica o il gioco del cadavre exquis, dimostrandosi in questo ben più radicale delle analoghe esperienze di cinema surrealista maturate nel periodo di poco precedente (gli ex-membri del Movimento Panico Alejandro Jodorowsky e Fernando Arrabal, David Lynch) e ricollegandosi direttamente alle teorizzazioni di Breton e alla loro applicazione al cinema da parte della coppia Dalí-Buñuel agli albori del sonoro. Non c’è dialogo nel film che si svolga sui binari della comunicazione media e razionale, le parole sembrano affiorare da profondità recondite e sepolte e si risolvono spesso in catene di puro nonsense: sequenze come quella del racconto della storia di Atahualpa sono in tal senso esemplari. Ecco uno stralcio dei più significativi:
“Cuore di neve. Nitrato d’oltremare. Aruspice di altri grembi. Lapislazzuli delle mie occhiaie. Fuochi salati dei miei roghi. Caldi cicloni stomacali e perfidi. Dolcezza atroce di comete fatte della rosa del parlar tacito. Metrica polverizzata della stagione morta di colombaie orientali. Cupola errante della barca emancipata e mercuriale. Nasale metronomo dei vespri mestruali del blu ospedaliero. Cosmogonia calcinata delle mie dita baccanti e pigre. Tutto del mio tutto. Nulla del mio nulla. Livido pasto sacrificale. Torre di guardia della mia Alhama. Fidanzato della Macarena.”
La logica alla base di questi accostamenti arbitrari risponde pienamente all’estetica surrealista dell’incontro fortuito e immediato “su un tavolo di dissezione di una macchina da cucire e di un ombrello”, secondo le parole di uno dei principali ispiratori del movimento, il Conte di Lautréamont. Ma Raúl Ruiz fa un passo ulteriore. In più momenti risulta infatti evidente come la parola sia adoperata non tanto nel suo significato quanto come mero valore tonale, semplice suono in grado di suggestionare. Quando le voci over si sovrappongono in un impasto sonoro inestricabile e incomprensibile, o viceversa l’eco dell’Isola scandisce e frantuma ossessivamente le parole di Isidore, la loro componente semantica si dissolve in puro suono, lasciando spazio solo ad un grammelot insensato. Tale preminenza fonetica varrà allora come regola generale, in sintonia con il gusto per le bizzarrie sonore che deriva al Surrealismo dalle proprie ascendenze patafisiche (tra l’altro in un punto si cita il jarryano “Merdre!”).
Tenendo presente tutto ciò, ecco qualche cenno di trama, nei limiti del possibile. L’azione si situa in un luogo e in un tempo imprecisati - nei “Territori d’Oltremare, una settimana prima della fine della guerra” - , sostanzialmente un non-luogo e un non-tempo, definiti da riferimenti cronotopici vaghi e confusi: una località costiera semideserta (di lingua francese ma di cultura ispanica) in cui risuonano gli echi di una guerra lontana e non meglio definita. In questo clima sospeso e pregno di decadente malinconia ci viene introdotta la protagonista Isidore (Anne Alvaro), ammalata di un qualche ignoto morbo e sofferente, in preda ad un’acuta forma di saudade che la porta a scrutare l’orizzonte e a ricordare con nostalgia un lontano amore passato: i suoi trascorsi ci saranno accennati solo in seguito. Con lei vivono i due genitori adottivi, che sembrano rassegnati al grigiore dell’esistenza, in particolare il padre, esacerbato e disgustato dalla vita. Durante una seduta spiritica per mettersi in contatto con il figlio morto annegato a dieci anni, essi ricevono la visita di due ambigui gendarmi che stanno cercando un bambino scomparso di nome Malo. Isidore lo trova in casa a più riprese e stringe con lui un legame di crescente complicità, che sfocia in un vero e proprio fidanzamento, con tanto di anello.
Il bambino (Melvil Poupaud) mostra subito peculiarità fuori dalla norma: appare e scompare nel nulla, dimostra una certa malizia e maturità, non dorme mai, mangia solo aglio (?). Poco dopo scopriamo che si è reso autore della strage efferata di tutta la sua famiglia, ma nonostante questo Isidore accetta di farsi guidare da lui verso una fantomatica Isola dei Pirati, dopo averlo aiutato a commettere altri due omicidi. Giunta sull’isola, Isidore perde le tracce del bambino e viene rapita da Toby (Hugues Quester), un uomo dalla personalità moltiplicata che impersona di volta in volta tutti i membri deceduti della sua famiglia, come un Norman Bates all’ennesima potenza. Questi la tiene segregata in un forte in rovina e le mostra il proprio giardino allegorico, facendone poi la propria consorte e regina. Isidore riesce a fuggire dal castello e ritrova Malo sulla scogliera dell’isola, venendo a sapere che dieci anni prima era avvenuto un delitto analogo al suo: sobillata dal mefistofelico bambino, Isidore uccide Toby, per poi abbandonare l’isola. I due gendarmi le rivelano infine che il meraviglioso bambino altri non è che un’incarnazione del loro profeta, Don Sebastian, il re dei puri, che ogni dieci anni riappare nel mondo massacrando i propri familiari per insegnare agli uomini a morire e ad uccidere, in una sorta di palingenesi purificatrice cosmica. Scopriamo così che Isidore è incinta e porta in grembo il futuro avatara di Don Sebastian.
Dieci anni dopo, Isidore e il figlio Sebastian, deforme e animalesco, ritornano sull’Isola dei Pirati per compiere il sacrificio necessario all’avvicendarsi delle ere: ritrovato Malo (che ha assunto le fattezze di Toby), Isidore istiga il figlio ad ucciderlo in quanto suo padre e poi si fa uccidere lei stessa. L’enigmatica sequenza conclusiva, virata al violetto, vede finalmente in scena, di spalle e rivolte verso il mare, le figure (Isidore e sua madre post mortem?) che con tono fatalista hanno commentato tutto il film come voci fuori campo, spesso sullo sfondo di suggestive marine in tempesta. Le sentiamo ancora sussurrare frasi ermetiche intrise di metafisica malinconia, mentre un uomo in stato di decomposizione avanza minaccioso puntandosi una pistola alla tempia: al che le due figure si voltano, mostrando due teschi scarnificati al posto del viso. Il film si chiude sulla necessità dell’eterno ritorno, con l’ennesimo risorgere di Don Sebastian all’orizzonte:
“Guarda. Ancora. Dio mio. Quanto durerà ancora? Pazienza. Tutto ricomincia. A volte mi dico che l’infanzia dev’essere questa. Vivere e rivivere, solo per tutte queste enormità. Pazienza, mamma. Pazienza, figlia mia. Tutto ricomincia. Noi siamo…qui…noi siamo…qui…noi siamo…qui…noi siamo…qui…noi siamo…qui…”
La scena finale sembra ambientata in un mesto limbo sospeso tra i mondi e le ere (l’aldilà?) e richiama alla mente le figure ctonie delle Moire/Parche della mitologia classica, che nell’oltretomba filavano i destini degli uomini e del cosmo. Ma il ventaglio degli archetipi mitologici e antropologici e dei topoi narrativi toccati dal film è ben più ampio. Si pensi al personaggio di Don Sebastian, che (oltre al riferimento storico e operistico al re “nascosto” di Portogallo) riassume in sé le caratteristiche del trickster, del Demiurgo, di Mefistofele, di Cristo e di Vishnu/Shiva, facendo collidere e fondere gnosticismo, escatologismo cristiano e induismo - la cui presenza è più consistente di quanto appaia a prima vista, se si considerano attentamente le ultime parole del film, quasi un’invocazione alla rottura definitiva del ciclo del samsara e al raggiungimento del moksha. Si pensi ancora ai molteplici generi narrativi con cui di volta in volta si camuffa la dimensione onirica di fondo dell’intreccio: narrazione mitologica, fiaba, racconto allegorico, romanzo d’avventura, romanzo gotico, feuilleton, giallo. Volendo indicare un modello predominante, si può citare senza dubbio il Peter Pan di Barrie, di cui il film si presenta esplicitamente come un rifacimento d’autore: se Malo è Peter Pan, Isidore è Wendy e l’Isola dei Pirati l’Isola-che-non-c’è.
In un film dichiaratamente surrealista, in cui tra l’altro accade di imbattersi in casi di sonnambulismo suicida indotti dal potere soporifero del denaro, palloni “obbedienti come pianeti” che levitano e grottesche partite di torello disputate con un teschio dalle personalità multiple di un unico giocatore, non è molto saggio tentare interpretazioni sistematiche, che rischiano di risultare inevitabilmente parziali e riduttive. Mi limiterò pertanto a proporre solo un azzardo di lettura a livello di trama, dato che la logica surrealista non presuppone di necessità la mancanza di una coerenza testuale. In particolare, qual è il rapporto che intercorre tra Isidore, Malo e Toby, i personaggi principali della pellicola? Essi appaiono legati in profondità da consonanze e contrappunti appena accennati ma sostanziali, quasi fossero riflessi distorti l’uno dell’altro in un cangiante gioco di specchi.
Il legame più evidente si instaura tra il malo fanciullo e l’uomo sdoppiato: entrambi hanno alle spalle una famiglia scomparsa (e in tutt’e due figura il nome di un colonnello), entrambi vedono in Isidore una compagna eletta e, quando questa racconta loro la propria storia, si mostrano disinteressati, sfogliando le pagine di un quotidiano, con una riproposizione quasi identica della medesima scena. Ma soprattutto nel prefinale Malo ha assunto le sembianze del defunto Toby: si tratta evidentemente della stessa persona, ossia di due incarnazioni successive (o forse compresenti?) del profeta Don Sebastian. Toby sarebbe dunque l’autore del massacro avvenuto dieci anni prima e di cui rimane traccia nella sua personalità prismatica (Hitchcock docet). Ma la stessa Isidore evoca più di un’affinità con loro: orfana a cinque anni non si sa in quali circostanze, ha causato il suicidio dell’amato (forse il misterioso uomo della scena finale?), nel giardino allegorico vive un processo di scambio/fusione con Toby e soprattutto, in quella che sembra un’epifania a tutti gli effetti, alla richiesta di rivelarle chi è il colpevole della strage, Malo le dice di specchiarsi e Isidore vede nel proprio riflesso il volto di Toby.
Con La Città dei Pirati Raúl Ruiz firma un’opera imponente e di infinita complessità, un “labirinto senza centro” - per citare l’espressione con cui Borges definì Citizen Kane nel 1941 - in grado di disorientare e turbare profondamente lo spettatore, un cerebrale sogno a occhi aperti che cela in realtà una lucidissima riflessione filosofica sulla stanchezza insita nell’eterno riavvolgersi dei cicli cosmici, un magistrale tour de force stilistico e formale con pochi precedenti nella storia del cinema, un oscuro enigma impossibile da decifrare compiutamente. Anche solo per quest’unica opera Raúl Ruiz meriterebbe un posto privilegiato nell’olimpo dei grandi del cinema, mentre il suo nome è purtroppo ancora oggi, nonostante l’approdo al mainstream dei suoi ultimi film, noto solo alla ristretta cerchia dei cultori e degli addetti ai lavori.
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