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Yankee. L'americano

Regia di Tinto Brass vedi scheda film

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La recensione su Yankee. L'americano

di scapigliato
8 stelle

Western-Pop per eccellenza, il film di Brass traduce visivamente gli stili di un’epoca attraverso il linguaggio e la forma cinematografica. Come Bava, Brass ridipinge la naturalità delle luci e dei colori con intenzioni antinaturalistiche attraverso colori pop e tagli di luce barocchi. Con un montaggio ipernervoso il regista insiste invece sull’importanza sia del dettaglio fumettistico che dell’ideogramma, dove un segno porta con sè un concetto, e dove il montaggio intellettuale fa tutto il resto. Grandi immagini, grande respiro fotografico nonostante il parossistico incedere dei dettagli, dei primi piani tagliati, delle angolature deformanti. Tutto il filmico è per “Yankee” la cifra che lo distingue da tutti i film dell’epoca proprio perchè questo look visivo ad uno spaghetti-western poco s’addiceva, invece è la conferma che lo SW resta l’unico genere al mondo che, nato come bizzarria, può essere strumento e contenitore di sperimentalismi, avanguardismi e bizzarie varie senza rovinare il fascino immaginifico della frontiera. Se il filmico ha prodotto, in “Yankee” come nella prima produzione brassiana, il tratto distintivo di un autore, è il profilmico e la diegesi a riportarci nel west(ern). Infatti gli ambienti, pur sfoggiando gli stessi caratteri ideogrammatici e bizzarri dell’intenzione sperimentale di Brass, ricordano perfettamente uno dei luoghi narrativi più calpestati: il lungo duello, psicologico e fisico, tra il pistolero protagonista e il messicanaccio cattivo. Il villaggio deserto popolato di soli peones fantasmi di loro stessi, il covo del Grande Concho dell’altrettanto grande Adolfo Celi ricavato in una chiesa dismessa, la cittadina fantasma, le cavalcate nelle lande almeriensi di terra secca e il grande fiume teatro del duello finale. E i motivi, dal sadismo del cattivo perpetrato ai peones, al bandito che tradisce il capo, alla bella donna del capobanda catalizzatore erotico per tutti quei maschiacci, le impiccagioni (una su tutte che forse ispirò Leone per il flashback di “C’era Una Volta il West”). Tutto, dai luoghi ai motivi, porta il segno western più puro, solo che poi passa attraverso una sua ridefinizione grazie all’apporto concettuale dello stesso Brass, che firma infatti uno dei western italiani più personali mai girati. I controluce sono spettacolari, e le silohuette sono infatti il primo grande referente di tutte le figurazioni del film. Tanto infatti ha preso dal fumetto che è impossibile non vedere “Yankee” come quasi fosse un film d’animazione. I personaggi sono ipercaratterizzati, sono fumettistici ed esasperati nella loro definizione. In più vengono loro messe in bocca celebri e colorate battute scritte da Giancarlo Fusco. Ma il referente fumettistico resta il primo e il più grande per il regista che in “Yenkee” usa tutte le soluzioni bizzarre degli sperimentalismi dell’epoca e tutti i procedimenti visivi del mondo del fumetto per creare un film unico, per nulla databile.
I momenti chiave sono conosciuti da tutti. Già i titoli di testa mettono in chiaro l’idea di Tinto Brass. Abbiamo la silohuette nera del protagonista ferma in controluce, a cavallo: un’immagine che già da sola evoca mondi e storie diverse. Il covo del Grande Concho è una chiesa dismessa e lui ne è il Papa che siede sul trono come un Imperatore religioso, sorretto dalla devozione dei suoi sgherri. Il “politico” Brass è chiaro: mette alla berlina la legge e la religione, ed innalza altari per furbi pistoleri arlecchineschi e per le loro nemesi romantico-rusticane. La Martin legata nuda, non completamente nuda, ad un palo nel bel mezzo di una cittadina fantasma, resta un’immagine erotica, sadica e sadiana. Da qui sappiamo bene che poche sono le differenze tra il Concho di Adolfo Celi e lo yankee di Philippe Leroy. Entrambi deviano la sessualità per concepirne la sola violenza. Ma già in fase iniziale, con quella bellissima scena di chiaroscuri in cui un bandito a cavallo irrompe nel saloon per rapinarlo, lo yankee rinuncia ad una paga sessuale con una donna per prendersi del denaro. Il cinismo di Brass è solo la traduzione esasperata e dai toni barocchi del cinismo umano in pieno boom economico. E ancora, la sparatoria nella cittadina fantasma, estenuante e dilatata fa il paio con la dilatazione inverosimile, ma bellissima e perfetta, del duello finale sul grande fiume. Il duello, si sa, è il punto di forza, il fulcro narrativo ed ideologico di tutto il genere. C’è chi ancora ci ride sopra, ma il duello è, come lo intendo io, la risoluzione di un’opposizione di termini esistenziali. Il duello è carne, sangue e polvere da sparo, ma anche introspezione, crisi, dubbio ed intellettalismo. É così che Brass lo fa finire il suo film. Lo chiude nella bellissima opposizione tra Concho e lo yankee, visualizzata perfettamente con le loro figure agli opposti del quadro cinematografico. In mezzo, è proprio il caso di dirlo, ci scorre il fiume. Chiude il suo film dopo una serie di innovazioni, sperimentalismi, eroticismi abbozzati, sadismi esasperati ma non da voltastomaco come faremmo, giustamente, oggi. Chiude un grande film.

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