Regia di Stefano Calvagna vedi scheda film
Ebbene, oggi parliamo di Baby Gang, film uscito nei nostri cinema lo scorso giovedì 17 Luglio, scritto e diretto da Stefano Calvagna, già autore di Cattivi & cattivi, da me recensito l’anno scorso.
Secondo la generalista Wikipedia, per baby gang si intende un fenomeno di microcriminalità organizzata, generalmente diffuso nei contesti urbani, per il quale minorenni assumono comportamenti devianti ai danni di cose o persone.
Calvagna sceglie dunque un titolo lapidariamente emblematico, diretto, senz’imbellettanti arzigogoli.
Calvagna, regista orgogliosamente underground, forse troppo, nato nel 1970 a Roma, adora la sua città natia. Un’adorazione però da moderno antropologo delle borgate criminose che serpeggiano nel sottobosco oscuro d’una capitale sporcamente mortifera, già smarrita nei meandri della sua inesorabile, assai precoce perdizione malavitosa.
Sì, le storie di Calvagna, così come noi avevamo già evidenziato in più occasioni, così come noi avevamo robustamente rimarcato, non sono ambientate nella Roma bene dell’alta borghesia capitolina.
Sono vicende neorealistiche di giovanissimi balordi che vivacchiano alla giornata fra spaccio e prostituzione minorile nella Roma più sgradevole e disturbante, vicende impietosamente inquadrate con lucida oggettività anti-pietistica o compassionevole. Calvagna, ereditando la tradizione, gli stilemi e i canovacci narrativi di film alla Ragazzi fuori da Cinema di Marco Risi, attingendo volutamente dal Cinema ingeneratosi a venire, soprattutto dell’ultima decade, pensiamo per esempio a Stefano Sollima o a Matteo Garrone, memore dello sguardo anti-retoricamente obiettivo che fu d’uno degli antesignani, massimi maestri della filosofica visione vérité delle condizioni suburbane di tutta una gioventù bruciata, tragicamente predestinata a soccombere dinanzi alla cruda spietatezza della vita loro futura già irreparabilmente compromessa, si fa portavoce e cantore d’un mondo deplorevolmente esecrabile, già inaridito e arso nelle illusioni e nelle speranze, un microcosmo cupo e cimiteriale, angoscioso e lugubre ove aleggia perennemente lo spettro ferocemente implacabile, appunto, dell’inaudita tragedia imminente.
Ma Calvagna non è un sociologo, non è un criminologo, non è neppure un moralista. Non ha insomma intenti pedagogico-didattici, cioè lui non giudica questi sbandati ragazzi disagiati che vivono emarginati, slabbrati e già corrosi nei loro cuori essiccati ai margini delle periferie romane degradate.
Lui li guarda, li filma, si avvale di attori non professionisti presi per strada e semplicemente ce li racconta con distaccata macchina a mano che scandaglia, viviseziona, sviscera le loro anime perdute forse già spente eppure paradossalmente, sì, vivamente incoscienti.
Per l’occasione Calvagna segue le vite di cinque sedicenni abbandonati a sé stessi, cinque incoscienti boys che vogliono fare soldi, commettendo piccoli grandi crimini dei più disparati. Il cui destino, per fortuite circostanze, si mescolerà a quello di ragazzi invece cosiddetti normali.
Che dire?
Gli intenti di Calvagna sono lodevoli, Calvagna è un regista che, come detto, non estetizza nulla, gira con una fotografia, osiamo dire, scarna. Quasi fosse quella di una fotocamera digitale che riprende, sulle note di Franco Califano, la Roma più disperata già inghiottita da sé stessa. Calvagna realizza un Cinema quasi da fiction che però, a differenza delle pellicole televisive, spesso appunto moralistiche e scolasticamente educative, non si propone d’illustrarci l’ancora attualissimo, peraltro sempre più in espansione, agghiacciante fenomeno della criminalità minorile, tirandosela da filosofeggiante tutor giudicante.
Lui osserva e basta.
Però, nonostante questo tipo di storia minimalisticamente figlia del più disadorno neorealismo del nuovo millennio, il budget è davvero troppo risicato perfino per un prodotto così, la recitazione sin troppo vera, nel senso peggiore del termine.
Perché, sì, va bene scegliere attori scelti quasi per caso e farli recitare quasi senza copione, però la sciatteria recitativa tocca in alcuni punti realmente dei picchi insopportabili.
Dunque, di Stefano Calvagna avevamo decisamente preferito il suo già succitato, precedente Cattivi & cattivi.
Altra storia di disperazione incombente però sorretta, in questo caso, da un ottimo Massimo Bonetti.
di Stefano Falotico
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