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Il cappotto

Regia di Grigoriy Kozintsev, Leonid Trauberg vedi scheda film

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La recensione su Il cappotto

di (spopola) 1726792
8 stelle

Il film

 

Tratto dai racconti Il cappotto e La prospettiva Nevskij di Gogol, il film ( una personale rilettura  delle intense pagine del grande scrittore russo) si colloca a pieno titolo nell’ambito di quell’avanguardia sovietica di inizio novecento espressa soprattutto dalla corrente FEKS (Fabbrica dell’attore eccentrico).

La regia comunque attinge a piene mani pure dal formalismo (del quale il film diventerà una specie di tardivo manifesto) ma non è esente nemmeno dall’influsso di esperienze più strettamente legate all’espressionismo tedesco (stilizzazione, deformazione espressiva, etc. etc.).

 

La tematica centrale dell’opera è una satira (molto corrosiva) a quella burocrazia disumana e “militarizzata” nella rigidità della sua struttura, del post rivoluzione  d’ottobre e il suo interesse principale sta proprio nella sceneggiatura (scritta da Jurij Tyniacov, uno dei più importanti esponenti del formalismo russo) poiché il merito di questo singolare ripensamento  elaborato secondo i dettami sperimentali del periodo, va ascritto soprattutto a lui (anche se in buona parte ispirato dal celebre saggio “Come è fatto Il cappotto di Gogol che nel 1919 Boris Ejchenbaum  - a sua volta esponente di punta del formalismo – aveva  dedicato all’analisi critica della struttura del racconto gogoliano e  che in poche partole si può sintetizzare così: “lo stile del grottesco esige che la situazione o l’avvenimento descritto, siano chiusi in un mondo di emozioni artificiali”, che  Gogol – e in particolare in questo suo racconto, porta alle estreme conseguenze, il che  è indubbiamente un pregio, ma al tempo stesso anche un limite che coinvolge  entrambi i racconti fra loro intersecati.

 

In perfetta sintonia stilistica e ideologica con questo assunto (e pur tenendo conto delle rigide regole imposte dall’eccentrismo che non  vengono assolutamente rinnegate) si sono dunque mossi con adeguata perizia  e perspicacia,  Kozin?ev e Trauberg  (che la storia del cinema ha definito giustamente come “i due registi che sono stati i primi a realizzare  in URSS un film in maniera stilizzata – in  apparenza convenzionale  ma fortemente innovativo invece nella sostanza -  proprio in virtù della fortissima carica grottesca, esasperata fino alle estreme conseguenze, che  pervade tutta la pellicola”).

 

I meriti formali sono davvero molti: notevolissime le  scenografie (irreali e inquietanti) immaginate  e costruite ad hoc da Evgenij Enej (peraltro ben fotografate da Andej Moskvin e Evgenij Michajlov)che riescono già da sole a dare vita a  un mondo di ombre  molto contrastate  dove a prevalere sono i bianchi e i neri, perfetti per evocare (e farci entrare  dentro anche lo  spettatore) la giusta atmosfera di questa gogoliana  “tragedia ridicola” in cui il cappotto diventa un vero e proprio personaggio davvero fondamentale (e quasi metafisico) che trova ampio spazio (autonomo) nella dinamica della storia.

Fra i due responsabili della fotografia una menzione speciale va comunque fatta proprio per Andej Moskvin, un operatore di grande sensibilità che, in quanto responsabile anche dell’illuminazione, ha fornito, più del suo collega, un prezioso materiale visivo assai elaborato fatto di inquadrature sghembe spesso in  controluce, violenti contrasti, sfocature e flou.

 

Il problema formal-sperimentale (definito così da Sergej Nikolaevi? Lebedev) è stato insomma risolto egregiamente e ci conduce dritti a valutare in maniera molto positiva la riuscita dell’opera, sia per l’abilità dei due registi che per il contributo primario di un sistema illuminotecnico mistico e romantico allo stesso tempo (realizzato da un operatore di grande sensibilità quale è stato Andrej Moskvin) che dà all’insieme l’aura di un racconto morale sospeso fa realtà e favola. Un altro con tributo tutt’altro che secondario, arriva poi dalla recitazione bizzarra e fantasiosa degli attori (Andrej Kostri?kin, Antonina Eremejeva, Emil Gal e Sergej Gerasimov in primis).

 

Un film insomma da vedere e da riscoprire.

 

La storia

 

Un giovane impiegato ministeriale, incontra sulla prospettiva Nevskij una dama bellissima. La segue furtivamente, ma, alla fine, la perde di vista. Da quel giorno, oppresso da una vita noiosa,  grigia e senza stimoli (abita da solo in un appartamento miserrimo  dove tracina la sua solitaria esistenza da scapolo priva di amicizie) l’uomo penserà solo a quella donna che a lui è apparsa come una “creatura celeste” , una figura nella quale incarna la sua idea di felicità. Ma questo suo idealismo si sgretola e svanisce quando l’oggetto del suo amore si rivela per quel che è: una cameriera volgare e corrotta.

Totalmente disilluso da quella scoperta l’uomo ritornerà sconsolato al suo tran tran quotidiano sia in casa che su quel suo monotono lavoro di scrivano .

I suoi anni trascorrono così veloci e senza guizzi riempiendo fogli e fogli con la sua scrittura ordinata senza nemmeno accorgersi che i suoi capelli diventano sempre più grigi e il suo cappotto sempre più liso e rattoppato.

A un certo punto però l’uomo ormai non più giovane e sempre più spento, prenderà la decisione storica di comprarsi un cappotto nuovo e basterà questo a risvegliarlo dal torpore e a far tornare nella sua vita la speranza.

Una sera i suoi colleghi lo invitano a un thè. L’uomo accetta l’invito e raggiunge i suoi colleghi indossando il cappotto nuovo. Tornando a casa a notte inoltrata, viene assalito da un gruppo di rapinatori che gli strappano di dosso il prezioso indumento.

Invano l’uomo derubato del suo bene più prezioso va a chiedere giustizia bussando alle porte dei sui superiori ma nessuno lo aiuta. Tutti invece lo irridono e lo prendono in giro per la sventura che gli è capitata.

Tornato sconsolato a  casa, la notte è assalito da orribili incubi che hanno al centro il bel cappotto che gli è stato rubato e al mattino… (non aggiungo altro anche se credo che a questo punto, il resto sia abbastanza prevedibile).

 

La regia[1]

 

La figura di Grigorij Kozin?ev (1905-1973) è inscindibile da quella di Leonid Trauberg[2] e non solo perché avevano fondato insieme la corrente avanguardista FEKS. Ci fu infatti fra i due una proficua  e lunga collaborazione che li portò a realizzare insieme molte pellicole  dirette a quattro mani iniziata nel 1924 proprio con la realizzazione di Pochozdenija Oktiabriny in italiano Le avventure di Ottobrina (si dice che fosse un’opera satirica carica di trucchi eccentrici e che sia stata considerata a tutti gli effetti  il manifesto cinematografico di quella corrente innovativa ma è purtroppo un’opera che è andata perduta e quindi dobbiamo accontentarci del sentito dire) che segnò in positivo tutta la parte iniziale  della carriera cinematografica del regista.

Fra i due c’era una forte affinità di intenti dovuta anche a un percorso formativo che aveva avuto molti punti di contatto: entrambi venivano da un intenso periodo di attività in campo teatrale, e insieme avevano trascorso anche alcuni anni all’estero interamente finanziato dallo stato che permise loro di conoscere e studiare dal vivo il cinema europeo dell’epoca  e di poter così respirare l’atmosfera intellettuale e decadente sia tedesca che francese del primo dopoguerra del secolo scorso.

Sarà proprio al loro ritorno in patria che i due decideranno di mettere a frutto gli stimoli che avevano ricevuto dal loro soggiorno nei paesi dell’Europa che li portò a fare una fattiva esperienza nell’ambito dell’avanguardia formalistica e successivamente a dare vita insieme a Sergej Jutkevic[3] (correva l’anno 1922) proprio  a quel gruppo FEKS a cui ho accennato prima, un movimento originariamente solo  teatrale, che si proponeva di sconvolgere le tradizionali forme di rappresentazione e recitazione inserendoci dentro gli elementi dinamici del cinema  e del music-hall.

Fu un breve periodo molto creativo del quale conosciamo molto poco poichè ben presto sentirono il bisogno di esplorare altre strade. E sarà proprio Il cappotto (Schinel) del 1926 a segnare il distacco dei due registi dalle posizioni  futuriste alle quali avevano aderito con entusiasmo per avvicinarsi invece alla scuola di Leningrado (e conseguentemente a una nuova, differente modalità espositiva della quale il film è un ottimo esempio).

Sulla stessa linea di ricerca espressiva, si collocherà anche La nuova Babilonia (Novyi Vavilon) del 1928, una ricostruzione degli avvenimenti della “Comune” di Parigi”  realizzata lavorando soprattutto sul ritmo del montaggio e la stilizzazione della recitazione.

La crisi degli anni ’30 e il conseguente avvento del realismo socialista,  porterà Kozin?ev e Trauberg ad abbandonare definitivamente il manifesto FEKS che manteneva ancora piccole tracce nel loro cinema e a sollecitare in loro la necessità di approdare a uno stile di rappresentazione più meditato che potesse continuare a mantenere attivi molti  dettami della nuova scuola del realismo ma con un’attenzione particolare verso la tendenza già felicemente sperimentata riguardante l’uso del montaggio privilegiandone l’uso per trasformarlo nello “specifico filmico” , indiscusso e fondamentale strumento della settima arte  da utilizzare come  una autonoma forma  creativa ed espressiva sa utilizzare in senso narrativo.

L’opera più rilevante di questa nuova fase operativa è la trilogia di Massimo (1934-1938) e più esattamente le tre parti che compongono l’insieme:  La giovinezza di Massimo (Yunost Maksima), Il ritorno di Massimo (Vozvraš?enie Maxima) e Il quartiere di Vyborg (Vyborgskaja Storona) che ne fanno un film di ampissimo respiro  imperniato sulla figura di un giovane rivoluzionario bolscevico.

Separatosi dopo la guerra da Trauberg, e dopo  un lungo, travagliato e oscuro periodo  in cui subì una forte repressione politica, Kozin?ev tornerà clamorosamente alla ribalta solo nel 1957 e ci regalerà ben tre capolavori: Le avventure di Don Chisciotte (Don Kichot) del 1957 appunto,  Amleto (Gambler) del 1964 e Re Lear (Karol Lir) che nel 1969 concluderà magnificamente la sua carriera artistica tre anni prima della sua dipartita.

 

Nota a margine

 

Sulla base del solo racconto Il cappotto (questa volta sceneggiato da Luigi Malerba, Alberto Lattuada e Cesare Zavattini, lo stesso Lattuada nel 1952 realizzò un altro ottimo prodotto con molte variazioni soprattutto per quanto riguarda la datazione (posticipata agli anni ’30 del secolo scorso) e l’ambientazione spostata in Italia, e più precisamente nella città di Asti. Ne fu straordinario interprete dolente e spento, un Renato Rascel mai più così bravo che qui raggiunse vette di assoluta eccellenza recitativa.

 

 

[1] Parlo soprattutto di Kozin?ev che fra i due credo sia la figura più importante e della quale conosco anche l’evoluzione successiva e posso  di conseguenza valutare nel suo insieme e con assoluta cognizione di causa tutto il suo percorso artistico .A Trauberg dedico invece solo poche righe poiché per me è molto difficile esprimere un  giudizio sulla sua figura di artista poiché non ho mai avuto il piacere di visionare le sue poche opere dirette in solitaria.

 

[2] Leonid Trauberg (1902-1990) terminata nel 1938 la sua collaborazione con Kozin?ev , ebbe successivamente una vita molto travagliata. Vessato dalla censura politica, nel 1949 fu addirittura allontanato dagli studi cinematografici, e questo a causa del suo “cosmopolitismo” inteso come mancato allineamento “ideologico” alla corrente del realismo socialista.  Costretto per diversi anni ad occuparsi solo di sceneggiature, verrà riabilitato solo nel periodo detto del disgelo. Riuscirà anche a tornare attivo nella regia nel 1958, anno in cui gli fu possibile  girare (producendoselo da solo) Soldati in marcia (Šli soldary) un film comunque molto inferiore come valore artistico a quelli da lui girati in collaborazione con Kozin?ev. Sappiamo che fra il 1960 e il 1963 diresse altre tre pellicole che non credo però siano mai arrivate qui da noi in Italia. Pochissimo o niente conosciamo anche di quello  che ha fatto nei 30 anni successivi che sono quelli che lo separano dal 1990 anno della sua dipartita.

 

[3] Sergej Jutkevic (1904-1985) che su questo sito (Film tv) è presente però come Sergei Yutkevic, ha avuto una formazione artistica di tipo avanguardistico (come abbiamo già visto, fu anche lui fra i fondatori del gruppo FEKS).

Attivo sin dall'epoca del muto nel campo dell’arte, partì dalla pittura e dalle arti figurative prima di approdare al cinema. Molto sensibile ai cambiamenti così frequenti nell’Unione Sovietica di quel periodo, da cineasta affrontò in modo molto personale il delicato  passaggio dalle ricerche dell'avanguardia degli anni Venti ai dettami estetico-ideologici del realismo socialista  . Non abbandonò comunque mai l'impegno per una continua e appassionata rielaborazione teorica e pratica del linguaggio filmico .

Il suo tirocinio  formativo lo aveva fatto nel teatro in qualità di attore,  scenografo e regista, prestando la sua opera nell’ambito del  teatro delle marionette,  nel teatro “ eccentrico” di Foregher e in quello chansonnieres.

Al cinema portò dunque tutta la messe di esperienze che aveva acquisito  operando sulle assi del  palcoscenico arricchendole però con le sue parallele ricerche teoriche proprio sul montaggio cinematografico (anche in contrapposizione a Ejzenštejn del quale era stato allievo).
Il suo primo fattivo contributo in questo settore, risale al 1928 anno in cui riuscì a dirigere in qualità di regista Merletti (Kruževa) un film molto curato sotto l’aspetto formale realizzato ancora  secondo le posizioni oltranziste del FEKS.

L’avvento dello stalinismo nella politica e del realismo socialista nell’estetica  e nella concezione della vita, danneggiarono pesantemente pure lui, costringendolo a una repentina virata verso quella corrente e a un ripensamento generale (anche critico) di tutta la sua precedente opera che si concluse con l’accettazione di alcuni canoni propri del realismo, sia pure rivisitati e riprodotti con una forma espressiva più dinamica  e originale.

Nel 1932 girerà, con la collaborazione di Friedrich Ermilr, Contropiano (Vestre?nij) uno dei titoli più importanti e significativi della sua filmografia, un’opera a suo modo rivoluzionaria, in totale rotta di collisione con il cosiddetto “virtuosismo ritmico” e l’avanguardia in generale. Un film che giocava le sue carte  sullo sviluppo dei conflitti  drammatici e sull’umanità dei personaggi (elementi tipici del realismo appunto, tanto che l’opera diventò quasi il manifesto  programmatico di quella corrente.

Le sue opere successive però si allontanarono molto da quella modalità di rappresentazione poiché il regista (come si è già visto)  aderì prontamente ai dettami estetico-ideologici  del realismo socialista,  e fu proprio questa metamorfosi a fargli guadagnare molti dei premi prestigiosi che gli vennero assegnati in patria (fra i quali  il Premio di Stato  conferitogli sia nel 1940 per il film Jakov Sverdlov che nel 1947 per il documentario Molodost’ našej strany).  

Tutte le sue opere  successive nacquero e si svilupparono all’insegna dell’ufficialità e  della celebrazione. Due in particolare (molto apprezzate in URSS) gli garantirono anche la celebrità internazionale e mi riferisco a Otello il moro di Venezia col quale vinse la Palma d’oro al Festival di Cannes del 1956 e Lenin in Polonia passato anch’esso da Cannes dove si aggiudico il premio per la migliore regia.

Buon ultimo, acquisì un altro riconoscimento molto importante: il Leone d’oro alla carriera assegnatogli a Venezia nel 1982.

Ben più interessante dei due titoli premiati a Cannes è però Il bagno (Banja) del 1962 felice tentativo  di realizzare un film di marionette tratto da Majakovskij.

Per saperne di più http://www.treccani.it/enciclopedia/sergej-iosifovic-jutkevic_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/                                                                                              

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Ultimi commenti

  1. champagne1
    di champagne1

    La tua monografia si legge tutta d'un fiato, caro Valerio. Quanto al film di Lattuada, mi permetto di dire che condivido pienamentel'apprezzamento su Rascel.

    1. (spopola) 1726792
      di (spopola) 1726792

      Ciao Luigi e grazie del commento. Ogni tanto mi piace ricordare (documentandomi per quanto è possibile fare adesso( i nomi di un passato ormai remoto che sono stati importanti anche per l'evoluzione del linguaggio cinematografico ma che adesso sono un poco dimenticati. Mi fa dunque molto piacere che tu abbia apprezzato il mio piccolo contributo. Essendo in tema, mi è sembrato giusto ricordare pure il film di Lattuada e la prova maiuscola che Rasce ha dato in quel film. E' un vero peccato che non gli siano state date altre possibilità di dimostrare le sue grandi qualità anche come attore drammatico

  2. DavideKingInk80
    di DavideKingInk80

    Non solo, Valerio, la presentazione saporita di un film succoso, questo 'Sinel', 'Cappotto' appunto, la cui trama più che stimolare, stuzzica proprio; un film, scrive Rondolino, che, attraverso una continua stilizzazione dei personaggi e dell'ambiente - sino all'astrazione figurativa -, gioca sui due piani della realtà e fantasia, della vita e del sogno, trasformando il testo gogoliano in un'occasione per un ritratto amaro e disincantato dell'esistenza. E difatti, aggiungo io, nella cocente delusione inferta dalla cruda, e crudele, realtà manifestatasi nella rozza cameriera, volgare e corrotta che improvvisamente, come una violenta raffica di vento, spazza e disperde quella che era una viva speranza, seppur idealizzata, ma pur sempre speranza, e nella profonda disperazione causata dal furto del cappotto nuovo, potente, neonato stimolo di vita, una vera e propria rinascita dal torpore depressivo, si possono chiaramente osservare i duri lineamenti del profondo disagio esistenziale che a maggior ragione si fa più acuto, forse, se generato da illusioni, false speranze ed aspettative tradite... Non solo questa preziosa pellicola, dicevo, ma pure un vero e proprio capitolo di storia del cinema: quello sviluppatosi nell'Unione Sovietica negli anni venti e che, in estrema sintesi, senza star lì a ribadire ciò che hai scritto e conosci assai meglio di me, partendo dalla Rivoluzione d'Ottobre giunge al periodo dei 'Formalisti' e, soprattutto, degli 'eccentrici' della FEKS; passando, nel corso del decennio, attraverso le sapienti ed importanti orchestrazioni di grandissimi cineasti quali Dziga Vertov, Lev Kulešov, Vsevolod Pudovkin, Aleksandr Dovčenko e Sergej Ejzenštejn, il più grande di tutti, sommo intellettuale e personaggio d'altissimo rilievo nella cultura della prima metà del secolo scorso. Tutto ciò prima che si generasse, negli anni trenta, una nuova grande "era" di cinema sovietico: il Realismo Socialista del quale il celebre 'Čapaev' dei fratelli Vasil'ev è, come risaputo, ritenuto la pellicola più importante ed emblematica... Grazie come sempre per gli approfondimenti stimolanti che immancabilmente ci proponi... Ciao!!

    1. (spopola) 1726792
      di (spopola) 1726792

      Rondolino ne ha davvero colto il senso più profondo (e tu hai fatto il resto ampliando la storia e l'evoluzione (o involuzione?) del cinema sovietico del secolo scorso. Ci saranno ancora grandi film ma per il capolavoro assoluto dovremo aspettare il folgorante arrivo sulla scena di Andrej Tarkovskij che già con L'infanzia di Ivan a Venezia aveva fatto il botto ma dimostrerà definitivamente la qualità della sua straordinaria forza espressiva con l'opera successiva; Andrej Rublev girato fra il 1965 e il 1967 ma che fu presentato a Cannes nel 1969 ma distribuito nel mercato russo solo nel 1972 (il che conferma la pesante cappa censoria che ancora ammorbava quel paese). il film è davvero di straordinaria rilevanza: un affresco storico raccontato attraverso le espressioni dell'arte utilizzato però per indagare "nelle tradizioni, nella religiosità, nei furori e negli abbandoni di un popolo sottoposto a prove atroci nel corso dei secoli" (la definizione non è mia ma di Fernaldo di Giammatteo) e fu sicuramente questo a creargli così tanti problemi in patria. Un film meraviglioso nel quale i fatti a volte cruenti o addirittura feroci, altre invece festosi, si sovrappongono a una meditazione visiva sulla incapacità degli uomini ad accettarsi per quello che sono, sull'infelicità e sul dono divino e inspiegabile dell'arte. Grazie davvero per questo tuo prezioso contributo e a presto.

  3. DavideKingInk80
    di DavideKingInk80

    Eh, Valerio, il compianto Rondolino sapeva il fatto suo! Hai ragione quando esprimi il dubbio sull'evoluzione del cinema russo dopo il Realismo Socialista: di involuzione sarebbe meglio, in effetti, parlare nei due decenni successivi. Sempre sintetizzando estremamente, il baricentro cinematografico negli anni 40 e 50 direi che non fosse esattamente nelle zone tra Mosca e San Pietroburgo: nel Belpaese esplodeva il Neorealismo che poi lasciò gradualmente spazio al genio di Fellini ed Antonioni per tacere di tutti gli altri grandi; in America, su tutti gli innumerevoli registi importanti, alcuni importantissimi, due mostri sacri come Orson Welles e Hitchcock (dopo la prima fase britannica) ed il nuovo divismo dei vari Marlon Brando, James Dean e Marylin Monroe, oltre ai primi capolavori di un altro gigante di nome Kubrick; pure il Giappone, con Kurosawa, Mizogouchi, Ozu, Ichikawa (quanto ho adorato 'L'arpa Birmana'), cominciava a dire egregiamente la sua; la Francia con il secondo Carnè, Clouzot, Bresson, Tati, Resnais si difendeva, ed attaccava, assai bene e la Scandinavia con Dreyer e Bergman giocava in prima linea; in Polonia c'era Wajda, in Germania, così come in Spagna - orfana di Buñuel - di certo non si navigava a gonfie vele... Dunque in Russia, dicevamo, un significativo declino con la sola, forse, eccezione rappresentata dal dittico di smisurato peso artistico, storico, culturale firmato, guarda caso, da Ejzenštejn; quell'Ivan Grozny che avrebbe dovuto comprendere una terza parte, dopo 'Ivan il Terribile' e 'La congiura dei Boiardi', se non fosse morto prematuramente il grande cineasta... Per quanto concerne il sommo Tarkovskij (condividendo totalmente il tuo parere nell'indicarlo come il vero, grande erede della tradizione cinematografica russa, dal dopoguerra in poi), scrivevo così a commento di un post, relativo al capolavoro 'Stalker', pubblicato sul sito re-movies.com curato da Roberta Lamonica: "Capolavoro assoluto, mi manca solo "Sacrificio" (che, comunque, posseggo in vhs, registrato dalla tv diversi anni fa, proposto su Rai 3 nel "Fuori orario" di Enrico Ghezzi) del grande Tarkovskij... Certo che se i vari "Solaris" (suggestivo, sempre, il paragone con "2001 Odissea nello spazio" del supremo Kubrik, due vere e proprie indagini filosofiche, e poetiche, sull'essere umano, sul senso della vita e della morte, e che dopo "Metropolis" di Fritz Lang, e prima di "Stalker" stesso e "Blade Runner" di Ridley Scott, rappresentano i punti più alti di un cinema in cui la "fantascienza" non si fa fine, bensì mezzo per raccontare altro...), "Lo specchio" (raramente, nel cinema, il complesso tema "rapporto genitori-figli" è stato analizzato in modo altrettanto sublime e profondo, e le figure della madre e del padre, il noto poeta Arsen', dei quali, in realtà, mai si libererà in tutta la sua filmografia, sono lampanti in questo film più che in tutti gli altri, e non trascurando, oltretutto, come sempre del resto, gli aspetti relativi al contensto storico e sociale) ed appunto "Stalker" vanno considerati, giustamente e legittimamente, capolavori assoluti, magari più dei, comunque notevolissimi, "L'infanzia di Ivan", "Nostalghia" ed il citato "Sacrificio", "Andrej Rublëv" dove possiamo collocarlo? Certamente fra le opere più potenti del '900; un'opera che trascende il cinema stesso, per abbracciare quella che è l'Arte tutta in una delle sue più totali, complete, sorprendenti manifestazioni di sempre". Il grande Tarkovskij, Valerio, è davvero artista imprescindibile ed il suo 'Andrej Rublev' si pone tra le più sorprendenti, incisive e splendide pellicole che abbia mai visto... Ciao a presto!

    1. (spopola) 1726792
      di (spopola) 1726792

      Qui caro Davide, hai ulteriormente allargato lo sguardo sulla feconda stagione del cinema che ha attraversato (quasi) tutto il novecento. Ci sono però ancora nel presente grandi nomi di analogo spessore purtroppo spesso ritenuti poco commerciali per essere sostenuti che vengono anche da paesi lontanissimi e altrettanto tormentati se non di più, di quanto fosse stata l’Italia e il mondo intero prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale. Sono davvero tanti anche se meno “sponsorizzati” di quelli di una volta, ma per parlare di tutti sarebbe impossibile poiché il panorama complessivo dei grandi geni della settima arte diventerebbe davvero diventare interminabile (ce ne potrebbero essere addirittura ancor di più se il sistema produttivo fosse più sollecito a riconoscerne il valore e a finanziare la loro l’arte, cosa che invece non succede perché il cinema, quello che conta, ha sempre più valenza commerciale). Per fortuna ci sono i festival e il web (per me croce e delizia allo stesso tempo, ma ormai più che utile, addirittura indispensabile) che ci permettono di intercettare questi nuovi talenti in pectore e fare conoscenza di cinematografie che una volta era impossibile raggiungere. Sicuramente li conosci già ma voglio segnalarti ugualmente gli otto capitoli visivi divisi in 15 episodi di “The story of te film” nei quali Mark Cousins ha sintetizzati in immagini la storia di 120 anni di cinema (azzardando anche alcune previsioni sul futuro). 900 minuti sono tanti, ma certamente non bastano a raccontare tutto quello che ci sarebbe da dire, ma è già molto: una sintesi ben documentata che ci permette di scoprire (o riscoprire) piccole perle spesso un poco dimenticate o addirittura sconosciute ai più. Si ferma però alla prima decade del 2000 e nel frattempo il cinema è andato ulteriormente avanti con una velocità trasformativa così elevata, che sta cambiando in maniera radicale il panorama generale della cosiddetta settima arte (la nascita e la fortuna delle serie per esempio) e chissà davvero dove andremo a finire. Con il tuo commento profondo e articolato , hai fornito altrettante ottime tracce da seguire (correnti e modalità di rappresentazione, collegamenti, suggestioni che ne hanno segnato l’evoluzione). Ed è anche solo leggendo le tue documentate note che ci rendiamo conto di quanta strada , ripida e tortuosa ma meravigliosamente emozionante, è stata percorsa per arrivare all’oggi in cui almeno una variazione sostanziale (che a me non piace molto, ma questo è un fatto secondario perché questo è soprattutto legato alla mia età anagrafica) c’è già stata ed è quella che ha portato a rendere sempre più marginali le visioni in sala (destinate a scomparire definitivamente se non per i blockbuster? Chissà!!!) rispetto ad altri mezzi di fruizione che ormai vanno per la maggiore.
      Rondolino è indubbiamente bravo e ci sono anche molti altri critici che sanno il fatto loro (probabilmente però sono meno capaci di una volta di fare “tendenza” o di fornire precisi e univoci orientamenti di pensiero come invece succedeva una volta (parlo dei miei tempi ovviamente o meglio di quelli della mia formazioni e noi che amavamo il cinema, avevamo una bibbia sicura a cui riferirci per orientarsi. Io per e3sempio sono cresciuto a pane e “cinema Nuovo” la rivista diretta da Aristarco che adesso è diventato quasi un Carneade per le nuove generazioni, ma che è stato per lungo tempo un maître à penser (insieme a tutti i blasonati recensori della sua scuola: Guido Fink, Lorenzo Pellizzari, Spinazzola, etc. etc.) cinematograficamente parlando che aveva una visione marxista così forte da fargli scrivere cose egregie e prendere anche molte cantonate (ma era facilissimo individuarle e non lasciarsi a nostra volta spingere all’errore e forse questo rendeva tutto più semplice anche le valutazioni personali. Per questo non mi piacciono le classifiche e le scale dei valori in assoluto perché ci sono molte variazioni e anche molte idee di cinema, tutte legittime anche quando si condividono poco.
      Anche io amo molto L’arpa birmana (di Ichikawa ti segnalo un altro titolo altrettanto bello: Fuochi nella pianura sul quale a suo tempo scrissi fra le altre cose, che la bellezza delle immagini, spesso intrise di fango e di pioggia, sublima senza contraddirlo, lo sguardo lucido quasi entomologico con cui il regista fruga dentro e fra i suoi personaggi, quasi fossero insetti da scrutare al microscopio, uno sciame disperato e “inerte” travolto da un destino ineluttabile al quale è inevitabile sottostare e soccombere.
      Per darti una dimostrazione pratica di come è cambiato il pensiero “cinema” e quanto più esigente e assolutista fosse invece quello dei critici militanti di una volta, ricordo come nel 1956 anno in cui L’arpa birmana fu presentato alla mostra del Cinema di Venezia, la blasonata giuria (c’era anche Bazin) decise di non assegnare né il Leone d’oro né quello d’argento perché a suo avviso nessuno dei film presentati in concorso, era meritevole di ricevere quei premi eppure in concorso oltre all’opera di Ichikawa c’era anche La strada della vergogna di Mizogouchi (e, sia pure su un gradino più basso, altre opere interessanti fra le quali Prima linea di Aldrich, Calle Mayor di Bardem e Gervaise di Clement).
      Sì di Ejzenštejn avvertiamo tutti la mancanza non solo di ciò che avrebbe potuto e dovuto fare se non fosse venuto a mancare a soli 50 anni. Ci manca oggettivamente la mancanza della terza parte della storia di Ivan il terribile,(del quale anche seconda parte fu presentata sugli schermi dopo la morte del suo autore.. (come avvertiamo l’assenza de Il prato di Bezin in gran parte distrutto dal regime ancor prima che fosse terminato. I pochi frammenti ritrovati negli anno ’60 del secolo scorso ci fanno infatti intuire la grandezza e la poeticità di un’opera che sarebbe stata sicuramente all’altezza degli altri capolavori del regista, e lo stesso si può dire per Que viva Mexico!.
      Ci si potrebbe dunque scrivere un tratto solo per fare un semplice esame comparato di tutti i grandi nomi che hai citato, il che è davvero impossibile farlo in questo spazio dedicato ai commenti. Concludo allora ritornando solo su Tarkovskij per suggerirti di vedere al più presto anche Sacrifcio che è un altro dei suoi massimi capolavori (una parabola mistica sviluppata in forma di preghiera che parla dell’assenza di spiritualità nella nostra cultura occidentale fondata sull’avere più che sull’essere ma è anche, al tempo stesso, un apologo metafisico sulla paura e la disperazione. Il Morandini aggiunge poi che è pure una variazione sul tema dell’uccisione del Padre, ossia della figura che di generazione in generazione deve essere venerata e, insieme, anche sacrificata. Sul film infine, Sergio Reggiani ha scritto “che ogni eventuale residuo polemico che poteva ancora esistere nel suo cinema precedete, si dissolve qui nel turbamento profondo della sincerità, nel volo solenne di un poeta contro la sconfitta universale”,

    2. DavideKingInk80
      di DavideKingInk80

      Certo Valerio, lo spazio riservato ai commenti non è di certo la sede più adatta per imbastire un discorso che riassuma, anche nel modo più sintetico possibile, 100 anni di storia (escludendo peraltro, nella fattispecie, i circa 25 anni precedenti, quelli dei pionieri che dai f.lli Lumière, passando per Mèliés, arrivano a Griffith e ai suoi celebri 'Nascita di una nazione' e 'Intolerance' - senza dimenticare 'Cabiria' del "nostro" Giovanni Pastrone); tuttavia, vedi, le tue analisi sono, come dicevo, talmente ricche e stimolanti che, spesso, l'impulso di volgere lo sguardo sempre più in là, e a fondo, diventa per il lettore quasi irresistibile... Confesso, in effetti, di non conoscere la rivista di Aristarco a cui fai riferimento e, personalmente, posso dire che il mio bagaglio di conoscenze cinematografiche (ovviamente sempre aperto, e che più lo si rimpingua più appare vuoto) lo nutro da sempre tramite il web (mantenendo i vari Morandini, Farinotti e Zappoli come punti di riferimento), i passaparola con amici e colleghi e, soprattutto, testi ufficiali di questo o quel critico o storico (Rondolino, appunto, ma pure Di Giammatteo, Canova etc.). Certo che se parte della critica blasonata dei tempi andati la definisci, giustamente, piuttosto intransigente ed assolutista, a me verrebbe da dire anche un po' miope (Andrè Bazin compreso) se, nel '56, riteneva le opere di Ichikawa e Mizogouchi non all'altezza del Leone d'oro e d'argento (!!): voglio dire, nel '51 e '52 tutta l'elite culturale occidentale, o buona parte di essa, si accorgeva, giustissimamente, di 'Rashomon' di Kurosawa, ne attestava il grande valore, pure a Venezia, per poi, a soli 5 anni di distanza, non riuscire a carpire (a prescindere dai nomi che presiedevano questa o quella giuria) quanto di potente e bellissimo opere come 'L'arpa Birmana' e 'La strada della vergogna' sprigionavano... mah, misteri... accontentiamoci di un'ennesima dimostrazione e certificazione della fallibilità umana, fallibilità che non fa sconti a nessuno evidentemente, pure a Bazin... D'altro canto, Valerio (confermando, in ogni caso, quanto poco m'interessino cerimonie e premiazioni), mi sento di affermare che, comunque, aveva infinitamente più senso la critica di allora rispetto a quella dei tristi tempi attuali; tempi in cui (riprendendo una mia recente, piccola, inoffensiva denuncia - una delle tipiche mie - postata su Facebook, raccogliendo alcuni titoli e stralci di articoli apparsi sul quotidiano 'Avvenire' e raggruppati poi, in una sorta di collage fotografico) "la critica è ormai esautorata e vince l'oligarchia di mercato", i tempi del "circo globale dove l'arte è solo spettacolo"; tempi in cui vien da chiedersi "A cosa serve la critica se tutto è intrattenimento?" , ed in cui un fine e coltissimo giornalista come Alfonso Belardinelli acutamente proferisce "se manca il giudizio ogni opera è capolavoro", ma pure il contrario aggiungo io; tempi che pare preconizzò, addirittura più di mezzo secolo fa, un certo Eugenio Montale quando scrisse nel suo libro 'Auto da fè': "Quando l'opera d'arte si sottrae al giudizio, i critici sono condannati a capire tutto, il che equivale a non capire niente" (ammettendo pure che, nella fattispecie, si riferisse a qualcuno che, scrivendo di lui, non avesse accolto il suo gradimento, non saprei, ma non importa, è il concetto di base che conta e che mi pare sacrosanto). Siamo in un periodo, purtroppo, in cui larga parte dell'arte è ormai totalmente prostituita alle leggi del mercato, ai diktat della finanza; un'era iniziata, sostengo io, con la 'Pop Art' di Andy Warhol e che poi, via via, si è sempre più incancrenita nelle metastasi del denaro, del narcisismo, esibizionismo e fabbisogno di consenso ("additando", in questo senso, gli artisti stessi dell'oggi che, in un'altra mia invettiva, li biasimo "accusandoli" di essere preoccupati essenzialmente di celebrare e magnificare se stessi anziché la Bellezza); un'era dominata dai social network ("con Facebook si sono aperte le fogne" sentenziò Umberto Eco) entro cui solo i più furbi, scaltri, coraggiosi ed intraprendenti (al netto dell'obiettivo, sia esso tributare se stessi o la Bellezza) riescono, sgomitando per bene, a farsi largo. Gente intraprendente e, in questo caso, di grande talento come il regista irlandese Mark Cousins, che conosco anche per via dell'ultimo suo documentario 'Lo sguardo di Orson Welles' che però nei cinema delle mie parti non è, ovviamente, stato proiettato e che, dunque, magari, se possibile, acquisterò assieme alla monumentale 'The story of film' che gentilmente mi hai segnalato. Per quanto riguarda 'Fuochi della pianura', l'ho segnato, da anni, nella mia kilometrica lista di titoli da acquistare (lista che, considerando pure i numerosissimi titoli di musica e letteratura, assume i connotati, ormai, di un vero e proprio scopo nella vita), ed è molto bello, profondo e suggestivo ciò che scrivi in merito! Spero di poter colmare la lacuna quanto prima. Altro titolo che ancora mi manca è proprio 'La strada della vergogna' di Kengji Mizoguchi, del quale però ho visto, e posseggo, gli altri due immensi capolavori 'Racconti della luna pallida d'Agosto' e 'La vita di O-Haru, donna galante'. Tornando al grande Tarkovskij, 'Sacrificio' (con un impareggiabile, come sempre, Erland Josephson...attore tra i più amati ed impiegati da Bergman - siam sempre lì - dalla cui arte e vulgata il grande cineasta russo sembra, in certe occasioni, aver attinto a piene mani, pur con garbo e delicatezza... due artisti immensi, solidissimi pilastri del cinema filosofico, teologico-religioso ed intimistico) lo vidi diversi anni fa grazie ad Enrico Ghezzi e, come scrivevo, lo posseggo pure in vhs registrato dalla tv... purtroppo il dvd non è mai stato commercializzato, ma è molto che non m'interesso, dovrei, in effetti, aggiornarmi un po'; confermo, in ogni caso, ricordo bene, si tratti di un'opera eccezionale, magari non di dirompente importanza come lo furono 'Andreij Rublëv' e 'Solaris', ma certamente un gioiello d'altissima caratura, splendido, slendendente, conturbante, angosciante, affascinante. Film la cui visione risulta necessaria e sul quale tu - oltre a Morandini e Reggiani - hai scritto, come sempre, assai bene ed acutamente, accogliendo, come sempre ancora, la mia completa approvazione... Ciao Valerio e grazie dei suggerimenti!!

    3. (spopola) 1726792
      di (spopola) 1726792

      Tornando alla Mostra di Venezia del 1956 (e alla questione annosa delle giurie) devo dire che nemmeno io do molta importanza ai premi anche perché sono sempre frutto di faticosi compromessi per cercare la sintesi fra posizioni differenti per le diverse sensibilità dei vari componenti che le compongono (e a volte ci giocano anche le piaggerie, le simpatie e le amicizie), alla necessità di trovare un bilanciamento fra le nazioni partecipanti in gara e - a quei tempi, quando il cinema faceva ancora tendenza - a pressioni politiche sempre molto accentuate e forti di natura pure censoria (o a certi regolamenti che in qualche modo limitano la libertà delle scelte dei giurati). A volte preferisco quindi aspettare prima di dare un giudizio definitivo perché, come si dice spesso, , il tempo è sempre galantuomo nello stabilire la bontà delle singole opere e aiuta moltissimo a farci distinguere il grano dal loglio. Quell’anno, il presidente di giuria era un produttore inglese attivo soprattutto nel finanziare progetti di documentari alla Flaherty, John Grierson. Bazin dunque era solo un membro insieme a Luchino Visconti, il giornalista G.B. Cavallaro, un regista russo vicino alla corrente del realismo socialista (Fiedrich Emler), un altro inglese, James Quinn (non so se fosse un regista o un attore) e Kiyohiko Ushihara, regista giapponese. L’ipotesi che circolava, era l’assegnazione del Leone doro a L’arpa birmana e del Leone d’argento a La strada della vergogna che però non diventò realtà soprattutto per la ferrea opposizione di Visconti che riteneva entrambi i titoli due buoni film ma non all’altezza di ricevere i due premi così prestigiosi (e qui si ritorna a una visione oltranzista fortemente militante e di conseguenza alla scuola e al pensiero di Aristarco che privilegiava il contenuto , l’impegno sociale, la contrapposizione al potere, rispetto alla forma che se troppo accentuata e prioritaria, lo portava ad esprimere molte diffidenze, anche se poi ha scritto ottimi saggi in positivo per esempio su Antonioni che in teoria si poteva immaginare non perfettamente conforme alla sua idea di cinema). Perché dunque non ha amato fino in fondo questi due titoli riuscendo a imporre la sua visone a tutta la giuria, presidente compreso? Forse perché aveva trovato un poco fuori luogo in un contesto così duro e drammatico come quello della guerra, l’eccessiva poeticità di un’opera come L’arpa birmana, sospesa fra realtà e estasi religiosa che ne addolciva un poco l’impatto (non era insomma sufficientemente “veemente”). Più difficile immaginare da cosa provenissero le piccole riserve formulate a proposito de La strada della vergogna perché nemmeno qui Mizogouchi (qui alla sua ultima fatica smentisce se stesso e tutto ciò che aveva magistralmente sorretto tutte le sue opere precedenti(azzardo: forse il fatto che questa volta, almeno in apparenza, il film può apparire troppo asettico e distaccato). Non era comunque la prima volta che la giuria escludeva l’assegnazione di qualche premio importante (nelle due rassegne degli anni che precedono il 1956 per esempio, non furono assegnate per le stesse ragioni le coppe Volpi per la migliore interpretazione femminile e questo la dice lunga sul rigore estremo (anche discutibile se vogliamo) di quei tempi. Più che di miopia parlerei comunque ancora e solo di quel rigore assolutista a cui accennavo nel precedente messaggio che li portava ad essere particolarmente esigenti nelle valutazioni complessive (a volte andando a cercare addirittura il pelo nell’uovo) anche se spesso poi le premiazioni per tutte le ragioni che ho esposto prima) erano da denuncia (come del resto lo sono ancora oggi). Sicuramente lo era stata quella del 1954 quando il Leone d’oro fu assegnato al calligrafico Giulietta e Romeo di Castellani (tutt’altro che disprezzabile ma certamente non all’altezza degli altri competitor la maggior parte dei quali furono condensati in un Leone d’argento collettivo che fu assegnato ex-aequo a La strada di Federico Fellini; I sette samurai di Akira Kurosawa; Fronte del porto di Elia Kazan; L'intendente Sansho di Kenji Mizoguchi ignorando però totalmente un altro capolavoro come Senso di Visconti verso il quale le pressioni politiche oppositive erano state davvero molto forti). Tornando ad Aristarco, è stato indubbiamente il critico più importante e famoso del secondo dopoguerra (possiamo dire quello che ha contato di più). Per conoscerlo meglio basterebbe la lettura di due opere fondamentali (fra le tante cose che ha pubblicato) come Storia delle teoriche del film (Einaudi) e Il dissolvimento della ragione (Feltrinelli).
      E’ vero quello che dici e affermi su questo argomento (assolutamente condivisibile insomma): la critica di una volta aveva molte più frecce da scoccare rispetto a quella della contemporaneità, Basta pensare che ogni testata giornalistica (quotidiani compresi) aveva il suo critico blasonato al quale era riservato uno spazio adeguato per sviscerare il cinema e andare ben oltre la trama nuda e cruda e non le tre righe striminzite di adesso (quando va bene) e tre o quattro stellette insufficienti a sintetizzare il valore e l’importanza di un’opera ed erano molto più copiose le produzioni di libri che avevano un mercato abbastanza ampio, non di nicchia assolta come si fa adesso quando i pochi trafiletti di qualche scarna riga e le stellette di riferimento sono solo sufficienti a dare una visione molto di massima (basta pensare al rapporto di Moravia con L’espresso tanto per fare un esempio concreto). Erano più copiose anche le riviste specifiche del settore e i saggi in volume che avevano una visibilità molto superiore di adesso anche come presenza nelle librerie perché pur di nicchia, avevano comunque un pubblico abbastanza vasto di riferimento.

    4. (spopola) 1726792
      di (spopola) 1726792

      non dico che il settore sia completamente morto, ma si è davvero rarefatto: escono interessanti analisi, ma il difficile è il loro reperimento se non si ricorre ad Amazon (cosa che cerco di evitare sempre perchè non mi va di regalare soldi a loro) e devono essere ricercate –se di proprio interesse – addirittura col lanternino.
      Ho trovato molto interessante sia il lavoro che hai fatto su fb, che le citazioni da Montale e Belardinelli. Concordo pure io anche con Eco quando ha detto che con Facebook (e similari, aggiungo io ) si sono davvero aperte le fogne (io avverto poi che ogni giorno che passa la puzza si fa sempre più forte).
      Sull’arte pittorica sono purtroppo un po’ meno ferrato che sul cinema e dunque prendo soprattutto nota di ciò che scrivi e dici tu (forse mi sono fermato un poco prima di Warhol e lo dico con un certo rammarico). La scoperta dell’arte moderna in questo campo è avvenuta per me abbastanza tardi ed è stata lunga e laboriosa: per molto tempo sono rimasto fermo al figurativismo di stampo ottocentesco e l’impressionismo (ma già Van Gogh rappresentava per le mie concezioni del tempo una trasgressione molto forte che mi soddisfasceva solo in pare: pensa come ero messo!!). Poi però ho imparato ad apprezzare le più azzardate esposizioni pittoriche del dadaismo ed mi hanno entusiasmato il futurismo, l’astrattismo, gli accostamenti violenti di Mirò, i preziosismi cromatici di Klee e Kandinsky, gli accesi contrasti geometrici di Mondrian, le dilaceranti e contorte visioni dell’espressionismo (e “l’Urlo” di Münch è finito per diventare il quadro preferito e più rappresentativo del mio immaginario); il cubismo e Picasso con l’inarrivabile Guernica; De Chirico, Casorati, Savinio, fino agli strappi netti e taglienti di Fontana e Burri, ma sono poi andato poco oltre anche se qualche cosa riesce a riempirmi gli occhi e il cuore (Basquiat per esempio) ma senza mai essermi posto il problema di una personale valutazione critica del risultato.
      Confermo che Lo sguardo di Orson Welles è un ottimo, appassionato documento… una vera e propria testimonianza imperdibile su Orson Welles e il suo cinema. Tornando infine a Sacrificio di Tarkovskij per me (parere strettamente personale) si colloca nei pressi sia di 'Andreij Rublëv' che 'Solaris', ma c’è anche chi come Paolo Mereghetti (che non mai amato molto né quando si atteggiava a critico barricadero su “Ombre Rosse” né tantomeno quando si è imborghesito scrivendo sul Corriere della sera ed è diventato famoso per il dizionario indispensabile come elemento di conoscenza della vasto produzione cinematografica dal suo esordio all’oggi, ma con qualche gravissima omissione, ma molto meno perciò che è scritto dentro. Per me insomma non sempre vanno prese troppo sul serio le sue valutazioni critiche come quella che riguarda appunto Sacrificio che stronca senza appello e lo liquida scrivendo: “(…)Lo stile sempre più visionario e denso di richiami esoterici cerca di afferrare l’invisibile, ma si incaglia nella letteratura che gronda dai dialoghi e nel bric a brac dei simboli (…)” Il film potrebbe quindi essere fonte pure di cocente delusione anche se prenderei davvero con le pinze le sue parole visto che lui non ha amato molto nemmeno Lo specchio e Stalker.

    5. DavideKingInk80
      di DavideKingInk80

      Mamma mia, sei quanto di più prossimo si possa definire una vera e propria "enciclopedia vivente" :D... Sulla pittura anch'io non sono un esperto, né un intenditore, ma, da amante dell'arte in generale, pure questo linguaggio - come la scultura, architettura, fotografia etc. - accoglie il mio profondo gradimento. Tutti nomi eccellenti, alcuni imprescindibili, quelli che hai citato; Basquiat fu uno dei pupilli più vezzeggiati e sostenuti proprio da quel pigmalione di Warhol (è pure grazie a lui che gente che brulicava nel sottobosco culturale di New York nella seconda metà degli anni 60 - gente come Lou Reed, John Cale, Nico...membri degli immensi Velvet Underground, gruppo d'infinita importanza ai fini dell'evoluzione della musica rock - seppe conquistarsi la giusta ed idonea collocazione tra i palchi più prestigiosi dell'arte), e pure a me piacciono molto diverse sue creazioni, con buona pace di alcuni fra i critici più assolutisti ed ortodossi (pure qui) che ritengono le opere di Keith Haring (che personalmente pure apprezzo assai) arte vera e pura e quelle dell "antagonista" Basquiat "falsa" e/o mediocre se non scadente... Attualmente, in questo campo specifico, pare sia il misterioso Banksy a dettare legge e parecchi dei suoi parti provocatori suscitano, in effetti, stupore ed ammirazione. In questo periodo, pur continuando ad accogliere di tutto a braccia aperte, ma anch'io quasi esclusivamente di ciò che riguarda il passato, più o meno remoto, sono particolarmente affascinato dall'Art Nouveau, più precisamente dal 'secessionismo viennese' capitanato dal genio di Gustav Klimt, e da quello di Monaco di Baviera (Jugendstil - arte giovane) di Franz von Stuck (a tal proposito interessante confrontare le due 'Pallade Atena' di entrambe, due stupefacenti dipinti sullo stesso identico soggetto realizzati nel medesimo anno, 1898) i quali intrattennero rapporti con un altro grandissimo più anziano di una o due generazioni: lo svizzero, di Basilea, esponente del simbolismo tedesco, Arnold Böcklin... Così come, da un po' di tempo a questa parte, m'intriga assai il "nostro" 'Divisionismo', quello dei maestri Gaetano Previati ed Angelo Morbelli, ma, soprattutto, di quel gigante assoluto che fu il grande Giovanni Segantini... poi, chiaramente, dal Rinascimento (pure quello fiammingo) all'Impressionismo prima ed all'Espressionismo poi, con tutte le sue varie sottocorrenti, vi è un'infinità tale di autori straordinari che non basterebbe una vita per affrontarne ed approfondirne ogni singolo capolavoro... Buon pomeriggio!!

    6. (spopola) 1726792
      di (spopola) 1726792

      No sono tutt’altro che un enciclopedia vivente. Ho solo avuto la fortuna (e il tempo) di leggere molto anche trasversalmente e qualcosa mi è rimasta appiccicata addosso. Questo fa sembrare che io conosca molto di più (e meglio>) di quanto non si invece nella realtà dei fatti… diciamo allora che so vendermi abbastanza bene ma non sono poi molte anche nel campo dell’arte le cose che conosco profondamente al di là del cinema e (forse) del teatro che negli anni della mia gioventù andava per la maggiore. Un poco lo sono anche nella musica (ma solo nel settore di quella che viene definita classica, lirica compresa). Frequento anche gli altri generi ma quelli li valuto e apprezzo secondo un giudizio emozionale tutto personale… insomma se mi chiedi “chi erano i Beatles” so sicuramente risponderti ma non sono sicuro di poterlo fare per tutti i grandi complessi e esecutori solisti che a volte conosco solo di nome perché la loro musica mi ha poco affascinato (non perché sia brutta, tutt’altro, ma perché non è riuscita a penetrarmi il cuore. E questo vale anche per la pittura… Quindi ho letto con molto interesse tutte le tue osservazioni (utilissime per ampliare anche la mia conoscenza) ma non sarei in grado di affrontare seriamente e con cognizione di causa una dotta discussione al riguardo visto che è soprattutto il mio gusto personale ad orientarmi. Tanto per farti un esempio, ho visto di recente a Palazzo Strozzi la mostra dedicata a Marina Abramovich e alle sue performances e devo dirti che mi ha soddisfatto solo in parte. Alcuned cose le ho trovate bellissime, altre mi sono sembrate poco entusiasmanti e soprattutto incapaci di toccarmi l’anima. Potrei tentare forse con Klimt o con Arnold Böcklin ma anche alla biennale di Venezia (non ho visto quella di quest’anno, ma molte delle precedenti) alcune cose mi hanno addirittura infastidito e più che arte, le ho trovate quasi una presa in giro o un delirio sconfinato del suo ideatore. Tu insomma conosci anche in questo settore molto più di me… e esponi molto bene la tua conoscenza. Ci sentiremo meglio in privatoNo sono tutt’altro che un enciclopedia vivente. Ho solo avuto la fortuna (e il tempo) di leggere molto anche trasversalmente e qualcosa mi è rimasta appiccicata addosso. Questo fa sembrare che io conosca molto di più (e meglio>) di quanto non si invece nella realtà dei fatti… diciamo allora che so vendermi abbastanza bene ma non sono poi molte anche nel campo dell’arte le cose che conosco profondamente al di là del cinema e (forse) del teatro che negli anni della mia gioventù andava per la maggiore. Un poco lo sono anche nella musica (ma solo nel settore di quella che viene definita classica, lirica compresa). Frequento anche gli altri generi ma quelli li valuto e apprezzo secondo un giudizio emozionale tutto personale… insomma se mi chiedi “chi erano i Beatles” so sicuramente risponderti ma non sono sicuro di poterlo fare per tutti i grandi complessi e esecutori solisti che a volte conosco solo di nome perché la loro musica mi ha poco affascinato (non perché sia brutta, tutt’altro, ma perché non è riuscita a penetrarmi il cuore. E questo vale anche per la pittura… Quindi ho letto con molto interesse tutte le tue osservazioni (utilissime per ampliare anche la mia conoscenza) ma non sarei in grado di affrontare seriamente e con cognizione di causa una dotta discussione al riguardo visto che è soprattutto il mio gusto personale ad orientarmi. Tanto per farti un esempio, ho visto di recente a Palazzo Strozzi la mostra dedicata a Marina Abramovich e alle sue performances e devo dirti che mi ha soddisfatto solo in parte. Alcuned cose le ho trovate bellissime, altre mi sono sembrate poco entusiasmanti e soprattutto incapaci di toccarmi l’anima. Potrei tentare forse con Klimt o con Arnold Böcklin ma anche alla biennale di Venezia (non ho visto quella di quest’anno, ma molte delle precedenti) alcune cose mi hanno addirittura infastidito e più che arte, le ho trovate quasi una presa in giro o un delirio sconfinato del suo ideatore. Tu insomma conosci anche in questo settore molto più di me… e esponi molto bene la tua conoscenza. intanto ti auguro un buon fine settimana. A dopo

  4. ezio
    di ezio

    gran bella recensione Valerio....io posso solo dire che ho la versione di Lattuada....con un immenso Rascel in una delle sue prove migliori....davvero grazie....con te imparo "il cinema".

    1. (spopola) 1726792
      di (spopola) 1726792

      Sempre molto gentile caro Ezio... Grazie a te che mi onori sempre con le tue atte attenzioni e i tuoi commenti... La versione di Lattuada l'ho voluta ricordare anche io perchè merita un'attenzione maggiore nel presente e non solo per la splendida prova offerta dal suo protagonista.

    2. ezio
      di ezio

      Grazie

  5. Utente rimosso (bufera)
    di Utente rimosso (bufera)

    Le tue recensioi sono un abbeveraggio di cuktura cinematografica e non solo.Grazia è una fotuna averti con noi!Questo film me lo hai fatto rivivere con le stesse emozioni di quando lo vidi la prima volta...

    1. (spopola) 1726792
      di (spopola) 1726792

      Sei sempre molto gentile e cara... sono felice se con le mie parole ti ho fatto riprovare le emozioni di un (immagino lontana) visionej

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