Regia di Alessandro Blasetti vedi scheda film
Si dice che se il gatto è fuori i topi ballano; così ho approfittato della famiglia in vacanza per visionare alcuni film dai contenuti complessi, altrimenti proibitivi da affrontare con un bimbo che gironzola per casa. Tra i tanti, il tema più difficile da trattare con un bambino è sicuramente la morte, specie quando provocato da un evento così grande e assurdo, agli occhi di un fanciullo, come una guerra. Perciò, nonostante siano già arrivate a destino le prime domande sul tema, ho preferito guardare in solitudine il documentario, girato per la RAI da Alessandro Blasetti nel '62, dal titolo "La lunga strada del ritorno" che, montando i filmati a disposizione dell'emittente di Stato e di altre cineteche straniere, con interviste appositamente realizzate ai "sopravvissuti e ai sopravviventi", getta uno sguardo particolare sulla Seconda Guerra Mondiale, uno sguardo che, come lo stesso Blasetti annota nei titoli d'inizio, non vuole essere storico ma emozionale, se mi si passa il termine, fatto cioè di quei sentimenti che solo una "raccolta di testimonianze" riesce a sprigionare.
Il documentario è stato riesumato dalla RAI nella ricorrenza degli 80 anni dall'inizio della guerra che, per inciso, è il 10 giugno 1940 per noi italiani. Per i motivi sopra riportati non ho potuto dedicarmi alla visione in quella data simbolica, ponendo, tuttavia, rimedio pochi giorni giorni fa a tale mancanza. La pellicola è ancora disponibile sulla piattaforma streaming dell'emittente, fortunatamente, nella versione restaurata da Teche Rai, presentata come "evento speciale" durante la 74ma Mostra del cinema di Venezia, tre anni or sono. Un restauro dei materiali necessario per la conservazione dell'opera d'arte che è stato preludio ad un restauro di una memoria, sempre vacillante, ancor più opportuno.
La guerra è sostanzialmente morte ed è della perdita che "la trasmissione" di Blasetti" si occupa raccontando il conflitto degli italiani dalla sua origine nel 1940 fino alla sua fine quando venne liberato il Nord occupato dai tedeschi e dai fascisti nel '45. Blasetti ripercorre idealmente i cinque anni della guerra riproponendo i filmati raccolti secondo l'ordine cronologico degli eventi, spezzando la continuità tramite l'inserimento delle citate interviste, la lettura delle lettere dal fronte e la sovrapposizione di alcune testimonianze audio ai filmati stessi. Si inizia con i fazzoletti e le lacrime versate dalle madri e dalle mogli allineate lungo il molo o protese verso i finestrini di un treno in movimento, in stazione. Si finisce con gli interminabili abbracci ai sopravvissuti di ritorno negli stessi luoghi che li avevano visti partire sani e spensierati pochi anni prima. Nel mezzo Blasetti ripropone le tappe più importanti del conflitto con le immagini e i racconti della campagna d'Africa, della campagna greco-albanese e, soprattutto, della campagna di Russia che pian piano si sarebbe trasformata nella nuova Caporetto e nella ritirata dell'esercito italiano.
Le numerose testimonianze parlano, dunque, di perdita, dei figli pianti dalle madri, dei dispersi a cui non si potè dare una sepoltura, dei compagni d'arme caduti congelati o strappati alla vita dalle bombe. C'è anche la perdita della dignità umana nelle parole dei superstiti. Gli uomini erano diventati bestie, esseri disumanizzati, pronti a tutto per sopravvivere, stritolati dal vuoto dell'anima martirizzata dai campi di prigionia, dalla fame, dalla sete, dal ghiaccio che paralizzava i piedi.
Le parole dei soldati disinnescano l'esaltazione degli ideali del regime. Le grida di festa degli alpini in partenza, un po' eccitati e un po' ciucchi, convinti di tornare "a baita" in pochi mesi diventano presto la voce sommessa di un orgoglio ferito nei campi di prigionia britannica, il ricordo della pazzia violenta che metteva fine alle vite di uomini spossati e affamati, il sussulto cieco dell'odio provato verso i greci che avevano ucciso i compagni.
L'assoluta consapevolezza di vivere una condizione di brutalità incontrollata a cui si era impreparati è probabilmente il leitmotiv di ciascuna esperienza e di ciascun dolore riportato a casa e mai assopito negli anni successivi. Il pilota racconta l'atterraggio di fortuna che ha salvato la vita dei compagni, lasciandolo cieco, e sbotta, togliendosi gli occhiali davanti alla telecamera di Blasetti: "questo è il volto della guerra!", un volto sfigurato dalle fiamme che annienta ogni apologia all'imperialismo fascista che provocò, dalla dichiarazione di guerra fino al 25 aprile '45, passando per l'armistizio, questa e ben peggiori mutilazioni ai soldati che ebbero la fortuna di sopravvivere.
Blasetti, invece, sembra essersi dimenticato della resistenza e dei partigiani che in questo documentario non trovano posto. Si accenna all'insensatezza del conflitto nella parole di un oppositore politico e nel ricordo di quel soldato che rammenta le difficoltà incontrate dopo l'8 settembre allorché ogni soldato dovette scegliere tra il regno e Mussolini. Dal controverso Blasetti sarebbe stato chiedere troppo ma si può anche tranquillamente affermare che nel '62 le necessità erano altre, ossia arrivare alla pacificazione sugli argomenti che ancora dividevano le fazioni politiche del paese divise tra nostalgia e antifascismo. Perciò la mancanza di una componente politica in questo cine-racconto è stata una scelta di saggezza così come lasciar spazio a riflessioni sull'umana provvidenza così poco appariscente ma viva per tutto l'arco della guerra.
La guerra dei soldati, dei poveracci, degli sfollati non è stata solo miseria poiché dove vi è il male c'è sempre quel pizzico di speranza e quel gesto di pietà che salva il mondo. Ecco allora il tedesco che regala ai soldati prigionieri i vestiti dei figli dispersi al fronte, quando gli italiani erano già diventati nemici del Reich, o quel pezzo di cioccolata finito nella bocca del soldato inglese catturato e ferito in Africa. In quella isba, ove si ode unicamente il rumore dei cucchiaio che sbatte sul piatto, Rigoni Stern mangia la minestra dalla ciotola di legno, mentre due soldati russi armati fino ai denti, seduti, in silenzio, a capo chino, rimangono immobili, fino alla fine del rituale, in attesa che il nemico finisca il rancio e se ne vada. In quel silenzio irreale interrotto appena da strumenti di vita anziché morte si sente l'urlo vivido di un'umanità che non è trapassata sotto le macerie di una città bombardata o sotto la coltre di cadaveri accumulati nella neve delle steppe ucraine.
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"Corro e busso alla porta di un’isba. Entro. Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. - Mnié khocetsia iestj, - dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. - Spaziba, - dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. - Pasausta, - mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi."
(Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve)
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