Regia di Luchino Visconti vedi scheda film
Il film che chiuse la trilogia tedesca di Visconti è forse il meno brillante dei tre. Opera confessionale come tutte le ultime del grande regista milanese, tenta una ardita sintesi fra il perverso teorema del potere lucidamente dimostrato nella "Caduta degli Dei" e lo struggente intimismo crepuscolare di "Morte a Venezia". La figura di Ludovico Re di Baviera è un chiaro alter-ego dell'autore: come Visconti è aristocratico, sensibile, ambizioso, tormentato, appassionato d'arte e di teatro, oltre che omosessuale. Le sue idee su come governare il popolo bavarese risultano tanto sincere ed originali quanto velleitarie e scriteriate: investire ingenti risorse per finanziare l’opera di Wagner e per costruire castelli tanto belli quanto inutili rappresenta il tipico atteggiamento romantico-decadente di chi si oppone fermamente all’idea di una società dove burocrazia, calcolo, razionalismo hanno soppiantato il Sogno e la Bellezza, senza però valutarne le conseguenze. Ludwig è appassionato, genuino, puro, ma anche capriccioso, incosciente, irresponsabile; e Visconti riesce a far emergere entrambe le sfumature, rendendo tutta la complessità e l’ambiguità di una figura tragica (merito anche di un Helmut Berger al suo massimo, fragile e psicotico, qui ben spalleggiato da una stupenda e risoluta Romy Schneider). Si veda, a tal proposito, anche lo svelto, brutale, gelido, anti-retorico finale, che nulla concede all’agiografia né al patetismo. Visconti gira con il consueto dispiego di mezzi, forte di una messinscena sontuosa che tuttavia non si limita quasi mai a vivere del mero sfarzo di costumi e scenografie (come nei peggiori Zeffirelli o Ivory), integrandosi invece al testo come elemento significante: Ludwig pare quasi perdersi in inquadrature sovraccariche di oggetti d’arredamento e corpi nobiliari che paiono imbalsamati. Anche quando Visconti pare lasciarsi andare alla tentazione decadente del decorativismo scenico, riesce invece ad essere pregnante e dolente: il lungo scambio di battute teatraleggianti nel lago dei cigni non è un virtuosismo fine a se stesso, ma la rappresentazione di una Vita (quella di Ludwig in quel momento della sua vita) divenuta oramai Teatro; la perlustrazione della cugina Elisabeth negli sfarzosi e deserti saloni dorati e stuccati non è un’occasione per mostrare il lavoro degli scenografi, ma la resa filmica dello stato di follia a cui era giunto il Re; mentre la festa fra soli uomini ubriachi in una capanna attorno ad un pioppo è una pagina di pura Poesia. Ci sono dialoghi splendidi, valorizzati da una regia sempre pronta a focalizzare le psicologie dei personaggi, con un lento e calibrato zoom o con l’aiuto di un’eccellente fotografia che isola i personaggi in una angosciosa penombra. Quello che semmai penalizza l’opera è, oltre al confronto inevitabile coi due film straordinari che lo hanno preceduto, una certa prolissità e una certa stanchezza che qua e là emerge in alcuni episodi, senza essere più di tanto riscattata dalla struttura rapsodica della narrazione: forse 4 ore sono troppe per una vita così vuota e melanconica come quella di Re Ludovico. Buona parte dei difetti risiedono nel manico: il copione è meno denso rispetto ad altri film del regista e i personaggi secondari sono in gran parte deboli. Se “Ludwig” resta il testamento estetico/storico di Visconti, quello più intimo e “ideologico” resta il sottovalutato “Gruppo di famiglia in un interno”.
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