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Il processo ai Chicago 7

Regia di Aaron Sorkin vedi scheda film

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La recensione su Il processo ai Chicago 7

di YellowBastard
6 stelle

La corazzata Netflix continua con la sua certosina (e instancabile) opera di costruzione di un’offerta sempre più allettante per un pubblico che si augura sempre più in crescita (anche grazie all’epidemia di questi mesi, purtroppo) e dopo l’ultimo Kaufman e l’annunciato e imminente Monk di David Fincher riesce a mettere le mani anche sulla seconda opera da regista, dopo Molly’s game, del premio Oscar Aaron Sorkin, ovvero lo spielberghiano Il processo ai Chicago 7.

 

Il processo ai Chicago 7 - Wikipedia

 

Come si evince dal titolo la vicenda raccontata nel film è quella del processo tenutosi a Chicago nel 1969 nei confronti di quelli che passeranno alla storia come i Chicago Seven, ovvero gli attivisti e leader di movimenti pacifisti e studenteschi che avevano organizzato le grandi proteste di piazza contro la guerra del Vietnam in occasione della Convention del Partito Democratico tenutosi sempre a Chicago il 28 agosto dell’anno prima e degli scontri, anche piuttosto pesanti, tra i dimostranti e la polizia e la Guardia Nazionale con un gran numero di arresti e feriti.

Un processo diventato celebre in America sia per l’atteggiamento sfacciato e sopra le righe del Giudice Hoffman che per quelle provocatorie e rivoltose degli stessi imputati.

 

Quella de Il processo ai Chicago 7 ha avuto una vicenda produttiva piuttosto travagliata, iniziata nel 2006 con la richiesta della Dreamworks a di Steven Spielberg ad Aaron Sorkin di preparare un adattamento dell’intera vicenda, da lui stesso fortemente supervisonata (insieme a Walter Parkes & Laurie McDonald), per una produzione cinematografica da realizzare giusto in tempo per le elezioni presidenziali del 2007.

Sorkin continuò a lavorare sulla sceneggiatura anche negli anni successivi nonostante il progetto non riuscisse mai a entrare davvero in produzione, prima per l’abbandono di Spielgerg impegnato in altri progetti, poi anche per i successivi abbandoni di chi venne chiamato a sostituirlo, da Poul Greengrass a Ben Stiller passando per Peter Berg e Gary Ross, ma senza riuscire mai a togliersi dall’impasse, soprattutto riguardo al budget necessario alla sua realizzazione, in cui il progetto era caduto.

Solo dopo le Presidenziali del 2016 e la vittoria di Trump alle elezioni Spielberg si è finalmente deciso a riprendere il progetto affidandone la regia allo stesso Sorkin che nel frattempo aveva esordito con discreto successo in Molly’s Game.

 

Con la produzione Dreamworks a garantire la giusta confezione hollywoodiana (sembra che Spielberg nel ruolo di produttore abbia controllato ogni aspetto della produzione, dai consigli sulla sceneggiatura alla scelta del casting, dalle sue presenze sul set a quella in sala di montaggio) Sorkin si mantiene su dei binari decisamente più classici, per certi aspetti più tradizionali e ben lontano da un certo rigore avanguardista, piuttosto diverso dai suoi ultimi lavori seppur sempre attraverso una sceneggiatura dallo stile personalissimo e pregno di idealismo con la quale ha sempre raccontato la sua America.

 

Il processo ai Chicago 7 - Novità Netflix — Gogo Magazine

 

L’ambizione però di mettere così tanta carne al fuoco si scontra con la difficoltà di far emergere compiutamente i diversi punti di vista e le personalità dei vari personaggi in così breve tempo, aspetto che il regista cerca di mediare non tanto attraverso la scrittura, comunque una sua alleata, o la regia, invece piuttosto piatta e lineare, ma con il montaggio, ad opera di Alan Baumgarten che con l’inserimento di brevi frammenti d’epoca cerca sovrapponendosi perfettamente alla ricostruzione cinematografica di donare un maggiore realismo a quanto raccontato, e soprattutto con la prova maiuscola di molti dei suoi attori.

 

Il vero punto di forza del film infatti è in un cast fenomenale tra cui un istrionico Sacha Baron Cohen affiancato dall’ottimo Jeremy Strong nei ruoli rispettivamente degli yippies Abbie Hoffman e Jerry Rubin, fondatori del Partito Internazionale della Gioventù, e seguiti poi da Eddie Redmayne nel più moderato (e Kennediano) Tom Hayden, John Carroll Lynch nel ruolo del pacifista e obiettore di coscienza David Dellinger, Yahya Abdul-Mateen II nel ruolo del fondatore delle Pantere Nere Bobby Seale, il carismatico e pacato, per quanto combattivo, Mark Rylance e Ben Shenkman nei ruoli degli avvocati difensori William Kunstler e Leonard Weinglass mentre Joseph Gordon-Levitt invece interpreta il loro avversario Richard Schultz, vice-procuratore federale, Michael Keaton è invece Ramsey Clark mentre un grandissimo Frank Langella interpreta il deprecabile Giudice Julius Hoffman (ma, sia messo a verbale, nessuna parentela con l’imputato Abbie Hoffman).

 

Il processo ai Chicago 7, tra verità e invenzione | Cinema - BadTaste.it

 

Il film ovviamente non si risparmia affatto sul fronte ideologico, sbilanciandosi senza alcuna remora e confezionando un prodotto estremamente politicizzato, riprendendo ed enfatizzando il cinema militante degli anni ‘70 (pur senza averne davvero gli attributi) ma contaminato da uno spirito di indignazione di matrice invece molto più recente e che rende Il processo ai Chicago 7 un evidente manifesto programmatico fieramente di parte, con l’aula di tribunale del ‘69 ricostruito cinematograficamente per essere non soltanto il ritratto politico (o politicizzato) di quei tempi ma anche uno specchio riflettente dell’America attuale, molto più di quanto lo sia effettivamente, ed è proprio questo ad avvalorarne sia gli aspetti positivi che quelli negativi.

 

E se è straordinaria la gestazione dei suoi personaggi e del cast, riuscendo a costruire uno scenario compiuto (per quanto referenziale) per ognuno di loro, intrecciandoli perfettamente con il processo e con la ricostruzione dei fatti, anche attraverso l’uso dei flashback, e sfruttando appieno l’apporto di ognuno degli attori chiamati a rappresentarli su schermo, come anche nel linguaggio efficacissimo, tra l’ironico e l’iconico, di un’epoca dalle forti divisioni, sociali più ancora che politiche, di una società in regressione la sua rappresentazione delle frammentazioni delle diverse identità democratiche ci ricorda con forza che l’unica battaglia che conta davvero e solo tra democrazia e autoritarismo e lo faattraverso un cinema militante e schierato ma anche pericolosamente demagogico, in quanto realizzato senza nessun reale confronto (o anche scontro) tra le varie parti in causa.

 

Senza mezze misure o sono dalla parte dei buoni, dei deboli e degli oppressi o sono invece i nemici, gli avversari e gli oppressori (con l’eccezione, quasi a confermarne la regola, del tormentato Schultz di J.Gordon-Levitt). in una visione molto semplicistica dei fatti e di un contesto, politico e sociale molto più complesso (e ambiguo) di quanto invece voglia far apparire.

 

Sorkin scrive e dirige un film che invece vuole semplicemente rimarcare quanto sia corretto e giusto schierarsi a favore di una parte ma senza mai affrontare una reale tesi cha lo giustifichi, dando probabilmente per scontato i giusti scopi e le giuste posizioni morali che li guidano ma senza che queste vengano mai messe alla prova, nemmeno per un momento.

E non per una mancanza di coraggio di Sorkin (anche se potrebbe sembrarlo) ma semplicemente perche la pellicola è costruita proprio per non permettergli mai di arrivare a quel punto.

E per quanto il messaggio sia chiaro, perfettamente orchestrato e urlato al pubblico, alla fine il risultato, come da tradizione hollywoodiana, risulta comunque di parte.

 

Chi sono i Chicago 7? La vera storia del processo raccontato nel nuovo film  su Netflix - Fuori Series

 

VOTO: 6,5

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