Regia di Aaron Sorkin vedi scheda film
Too young to vote but not to die. Too young to love but too old to cry (scritta riportata su uno zippo appartenuto a un soldato in Vietnam).
È incredibile, e sconfortante, constatare quanto il passato dialoghi con il panorama contemporaneo.
Cambiano gli scenari, ma è sempre la solita solfa. Quando la plebe fa sentire a chiare lettere la sua voce, il potere di Stato si accanisce contro di lei ricorrendo a tutte le armi disponibili, con l’unico fine di levarsi dai piedi chi tenta di rompergli le uova nel paniere una volte per tutte.
Fortunatamente c’è (c’era?) chi è sicuro di essere dalla parte del giusto ed è pronto a perdere tutto, compresa la libertà, per far sì che il messaggio arrivi a tutti e attecchisca in profondità.
Per gli scontri tra polizia e manifestanti, avvenuti durante la convention democratica a Chicago nel 1968, un gruppo di esponenti che ha guidato la protesta, finisce a processo.
Difesi dall’avvocato William Kunstler (Mark Rylance), gli imputati, tra i quali compaiono Abbie Hoffman (Sacha Baron Cohen), Jerry Rubin (Jeremy Strong), David Dellinger (John Carroll Lynch) e Tom Hayden (Eddie Redmayne), devono vedersela con la pubblica accusa capitanata dal giovane Richard Schultz (Joseph Gordon-Levitt), ma soprattutto con l’integerrimo giudice Julius Hoffman (Frank Langella).
Sebbene la sentenza appaia già scritta, gli imputati porteranno avanti con fermezza i loro ideali.
Il processo ai Chicago 7 è un legal movie contraddistinto da uno spiccato impegno civile e intenti cristallini, ossia rendere giustizia e onore a un gruppo di giovani che ha saputo mantenere intatti i propri ideali anche quando era lampante che la loro posizione li avrebbe portati a pagare un conto salato.
Una contingenza che, in qualche modo, addomestica Aaron Sorkin, per quanto la sua innata, e tambureggiante, andatura rimanga un marchio di fabbrica, quindi travolgente, con la parola che detta immancabilmente il movimento.
Un modus operandi che agita le acque, che accende la miccia e scaglia la pietra senza mai ritrarre la mano, marcando il territorio senza alcun velo.
Così, il palcoscenico si anima fin dalle prime battute, acquisisce un buon passo e non lo perde mai - questo avviene anche grazie al montaggio serrato dell’esperto Alan Baumgarten (Jojo Rabbit, Molly’s game, American Hustle), che asseconda e intona appieno il testo -, officiando un confronto impari, peraltro squassato da forma mentis variabili all’interno degli schieramenti.
Fazioni che pullulano di personalità, rese vivide dagli interpreti. Al carisma debordante di Sacha Baron Cohen, risponde l’odiosa compostezza di Frank Langella, mentre Joseph Gordon-Levitt lascia trapelare le convinzioni idealistiche del suo personaggio, Mark Rylance è puntuale e, per una volta, Eddie Redmayne recita in modalità acqua & sapone.
A conti fatti, Il processo ai Chicago 7 è un film classicheggiante e persuasivo, che vede Aaron Sorkin adattarsi, mettendosi al servizio dell’oggetto. Parimenti, non concede tregua e sale in cattedra, confrontando ideali e posizioni inconciliabili, con una formulazione organica e scoperta, tra scontri ad armi impari, picchi d’indignazione, processi segnati in partenza e sconfitte stabilite a tavolino, con una chiusa da pelle d’oca, che cesella un tributo sacrosanto.
In pratica, una pellicola che potrebbe farsi valere, con giusta ragione, ai prossimi (depotenziati) premi Oscar.
Perentorio e doveroso.
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