Regia di Aaron Sorkin vedi scheda film
And that, ladies and gentlemen, is how it’s done in America. Così si faceva e così si continua a fare. Certe cose non cambiano mai. Le risposte sono sempre le stesse. Sorkin ce ne offre solamente un esempio, un ennesimo esempio; col merito di riportare alla luce della ribalta una vicenda forse non tanto conosciuta o ricordata – una vicenda emblematica che si dimostra in grado di suggerire alla mente dello spettatore senziente neanche troppo velati paralleli con il presente; probabilmente in certa misura andando anche oltre le intenzioni dell’autore, considerando in particolare il fatto che il film in origine sarebbe dovuto uscire nelle sale oltre un decennio fa.
In molti vi hanno fatto caso: ecco che per una volta l’esser rimasto relegato per lunghissimo tempo nel proverbiale “inferno dello sviluppo” ha finito per giovare a un film. Film che appunto non avrebbe potuto essere distribuito in momento migliore: ovvero, un periodo come il nostro in cui gli si offre la possibilità di risuonare ancora di più, certo specialmente negli Stati Uniti (a prese con le proteste del “Black Lives Matter”, presidenti “untori” potenziali non “sicuri di accettare i risultati elettorali, si vedrà” e dunque una delle elezioni più controverse della storia dietro l’angolo), ma non solo.
In realtà, a dirla tutta, al di là delle ovvie peculiarità, si potrebbe quasi sostenere questo nuovo film di Sorkin riesca in diversi punti a travalicare i confini nazionali al fine di trasmettere messaggi ed ideali universali (di uguaglianza, emancipazione, democrazia, rivalsa sociale ecc.). E risulta quasi inevitabile, dopotutto, considerando il periodo storico.
Seppur forse in sordina, emerge inoltre una sorta di tentativo di riflessione critica in merito all’eredità di quella fremente stagione, come risulta abbastanza evidente nel confronto serrato tra il pacato “moderatismo” d’un Hayden e all’opposto il fervente “estremismo” d’un Hoffman (morto suicida sullo scadere degli anni Ottanta: non è sopravvissuto al riflusso gastroenterico reaganiano…). Il che – col senno di poi – induce a ragionare altresì sulle attese deluse, le aspettative disattese, le promesse tradite: insomma, su quel che alla fine s’è davvero ottenuto: le cose sono davvero cambiate? Quella domanda rimane lì, persistente e “inossidabile”, lugubremente aleggiante, per l’intera durata della visione. E’ davvero cambiato qualcosa? Potrebbe ancora succedere? Le nostre società sono effettivamente progredite? (Troppo facile sarebbe tirare in ballo il solo Trump [insieme ai vari Bolsonaro, Orban e compagnia cantante], ma il declino ha origini ben più lontane ed investe probabilmente una ben più larga fetta di apparato e popolazione…).
L’intenzione non è quella di deprimere e ridurre all’apatia, piuttosto il contrario, ma è facile intravedere un pizzico di disillusione e scoramento (perfettamente esemplificati dal personaggio di Kunstler, l’avvocato interpretato da Rylance). E non solo per via del già citato riflusso post-sessantottino, ma anche di fronte all’indifferenza o peggio ancora aperta ostilità non solo – appunto – del potere, dell’apparato (“che se sentisse parlare Lincoln oggi probabilmente lo sbatterebbe in gattabuia”), della minoranza che ha tutto da guadagnare nel lasciare le cose come stanno, perché il mondo le si attaglia alla perfezione (come i “gentili convenuti” all’Haymarket Tavern), ma anche in buona sostanza della maggioranza, silenziosa forse ma minacciosa e incombente.
Diversi altri i temi anche solo sfiorati (in ordine sparso: le questioni della libertà di parola tutelata sì, ma a patto che non faccia troppo rumore; della fragilità di istituzioni facilmente piegabili ai “capricci” di chi le governa; della furia ideologica patriottarda per la quale curiosamente protestare per diritti, pace, libertà, democrazia ed emancipazione costituisce un inequivocabile indizio di “repellente anti-americanismo” [quest’ultimo costituente sensazionale atto d’accusa buono per tutte le stagioni]), ma di questi è uno in particolare a rimanere impresso, forse in quanto trova nella “brevità” del suo trattamento il segreto della propria maggior incisività: ci si riferisce al tema della differenza abissale che sempre intercorre tra bianchi e neri, anche in una stagione di lotta come quella di quegli anni (l’assassinio Hampton non è lì per caso).
In sostanza, eccolo lì che ritorna: il razzismo, istituzionale e istituzionalizzato, diffuso ed esacerbato anche a fini bassamente elettorali. E la scena sempre non a caso probabilmente più agghiacciante ed insieme memorabile risulta essere proprio quella che vede Seale malmenato, ammanettato ed imbavagliato senza ritegno per aver osato richiedere per l’ennesima volta d’essere adeguatamente rappresentato: una tensione palpabile percorre quei momenti, momenti dinnanzi ai quali neppure l’ineffabile procuratore dell’accusa riesce a rimanere indifferente (“Vostro onore, abbiamo un imputato imbavagliato e legato in un’aula di tribunale americana”). Per diana, ma manco in Honduras! (Kunstler docet). Siamo qui in presenza d’uno dei vertici della pellicola, senza dubbio.
Comunque tantissime altre sono le possibili diramazioni – anche a costo di “stiracchiare” troppo il significato – e tra COINTELPRO, sicurezza nazionale, sorveglianza di massa, agenti provocatori, accuse fabbricate ad arte e assassinii piuttosto “convenienti” quel che in definitiva va a formarsi è un quadro piuttosto inquietante. Ed è così che riemerge, maledetta ed immarcescibile, la consueta domanda: ed oggi? Sono davvero cambiate le cose? Parrà evidente come ormai si configuri come una domanda puramente retorica e anche piuttosto ingenua.
Difatti, di fronte a simili vicende – alle solite fastidiosissime proteste e ai soliti viepiù irritanti movimenti radicali che tanto infastidivano già ai tempi il “compianto” J. Edgar Hoover – la risposta è la medesima, la stessa di sempre: schierare i reggimenti, sguinzagliare le “patrie difese”. Il manganello la cura palliativa, il proiettile quella definitiva (vien da pensare per neanche troppo bizzarre associazioni d’idee ad un altro eccellente film uscito negli ultimi anni: Detroit di K. Bigelow).
Insomma, per farla breve, tantissima è sicuramente la carne al fuoco, ma l’ispirata penna del regista-sceneggiatore opera di nuovo il miracolo, riuscendo a sintetizzare piuttosto abilmente sin dall’incipit documentario un “marasma” di idee, situazioni e personaggi da capogiro, condensando poi brillantemente il tutto in poco più di due ore di proiezione.
Concedendosi anche il “lusso” di battute fulminee e fulminanti (sparate a raffica specie dall’incontenibile Hoffman, interpretato da un altrettanto irrefrenabile Baron Cohen), spesso in perfetto connubio con il montaggio (fin dall’inizio col “giochetto” delle frasi terminate nella scena seguente; o come nell’ottima sequenza dello scontro con la polizia, in cui si alternano fiction e realtà, gag da stand-up comedian di Hoffman che introducono la scena successiva e momenti di pura azione, mantenendo lo spettatore letteralmente ancorato allo schermo).
Ed appunto il film “aggancia” da subito per non mollare più la presa, nonostante sia composto quasi interamente da lunghi e fittissimi dialoghi, botta e risposta e quant’altro (ma se a scriverli c’è uno come Sorkin…). Minuto dopo minuto, scena dopo scena, a crescere sono la rabbia e l’indignazione. Tuttavia, il film non ingenera unicamente una risposta diretta ed emotiva, ma anzi come detto anche intellettuale, nel momento in cui si dimostra in grado di offrire a ritmo serrato una lunghissima serie di ottimi spunti di riflessione, non dimenticando di prendere chiaramente posizione. Difficile quindi immaginare film più utile e fin “necessario” di questi nostri variegati tempi, ammalati di “presentismo” e troppo poco adusi a prendersi un attimo per guardarsi un poco alle spalle e ragionare su ciò che è stato.
Eccezionale ensemble di attori, con menzione speciale per Langella, interprete del “mefistofelico” giudice Hoffman. Inutile prodursi invece in ulteriori encomi per sceneggiatura e montaggio. In sintesi, Il processo ai Chicago 7 non sarà forse granché innovativo a livello stilistico, ma non importa, perché la sua funzione è un’altra e la assolve come detto egregiamente. Brav-o!, come direbbero gli americani (e non solo loro).
“[What the fuck!] Your Honor, our defendant is gagged and bound in an American courtroom…”
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