Regia di Florestano Vancini vedi scheda film
All'interno dell'onorevole e suggestivo filone del cinema 'civile', a fianco di nomi di registi e di titoli sicuramente più blasonati o memorabili (il Cittadino sopra ogni sospetto di Petri o Le mani sulla città di Rosi, per dire due dei lavori più rappresentativi), anche Vancini ha un suo posto. E questo La violenza: quinto potere, tratto da un'opera teatrale di Giuseppe Fava, è una delle pellicole che in definitiva lancia il poliziesco - che poi degenererà in poliziottesco, assumendo in sè la componente comica - nel cinema italiano degli anni '70. La struttura della narrazione è molto semplice, ma tenuta insieme efficacemente dal regista ferrarese; si tratta soltanto di un processo per mafia, raccontato attraverso le deposizioni di tutti gli imputati. Per ciascuno di essi partono i debiti flashback, che aiutano anche la visione allo spettatore, evitando di rinchiudere il racconto nel claustrofobico ed immobile ambiente del salone del tribunale. Di questo lavoro colpiscono essenzialmente due fattori: il primo è formale, ovverosia la scelta di mostrare una giustizia gambizzata, annichilita, sovrastata dal potere occulto della mafia (più volte accostata alla politica); l'emblema sostanziale di tale caratteristica è tutto nell'intervento della vedova (la Melato) di un uomo ucciso e fatto scomparire dalla mafia perchè testimone di un altro omicidio: mentre lei urla la verità, nota a tutti i presenti ('non ho nemmeno un cadavere su cui piangere', additando l'imputato che si professa chiaramente innocente), le guardie sono costrette a portarla fuori dall'aula. Sempre in linea con tale impostazione troviamo l'assassinio finale del giudice, affiancato dalla nascita di un nuovo 'picciotto' che perpetuerà il cancro della mafia nel tessuto politico, istituzionale, economico, sociale. Secondo fattore, ma questa volta tecnico, di tutto risalto è il cast: è soltanto da pazzi, lasciarsi sfuggire un film in cui gli avvocati sono Enrico Maria Salerno (mostruoso) e Gastone Moschin, l'imputato principale è Mario Adorf, il giudice è Turi Ferro e fra i testimoni sfilano Mariangela Melato (che, per questioni di accento, è però la meno credibile della combriccola) e Ciccio Ingrassia, qui chiamato - altro enorme merito di Vancini - per la prima volta ad un ruolo drammatico (complice uno degli estemporanei litigi con il partner artistico Franco). Un film importante. 7,5/10.
Ad un processo per mafia il pubblico ministero si ritrova a dover fare i conti con testimoni inaffidabili, prezzolati o semplicemente omertosi, mentre i veri responsabili di una strage derivante da speculazioni edilizie rimangono impuniti, sebbene tutti sappiano i loro nomi e volti.
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