Regia di Brad Anderson vedi scheda film
Calcificazione della memoria.
Come sempre: il piatto sprofondo U.S.A. (Nebraska, Kansas, Oklahoma, Missouri, Kentucky, Tennessee, il Bilancere del Veneto, l'Agro Pontino, il Tavoliere delle Puglie...), che si estende come sempre sino alla curva dell'orizzonte da un lato e dall'altro della carreggiata d'asfalto come sempre ripresa con drone/elicottero a 45° o a piombo, a fare come sempre da preambolico proemio e prologante prodromo ad un come sempre ampliamento/estensione di un buon episodio della serie “the Twilight Zone”, come sempre quella originale degli anni sessanta: come sempre.
Ma però qui, come altrove (“In the Tall Grass”, “RattleSnake”), funzionicchia...
Volendo considerare nella sua interezza fin qui dispiegata la carriera di Brad Anderson si può individuare un giro di boa: l'episodio “Sounds Like” (2006), appartenente alla seconda stagione dell'antologia “Masters of Horror”, prima del quale è situata la parte migliore della sua produzione (“the Darien Gap”, “Next Stop WondeLand”, “Happy Accidents”, “Session 9” e “the Machinist”) e dopo la quale si trova quella più modesta (“Transsiberian”, “Vanishing on 7th Street”, “the Call”, “Eliza Graves / StoneHearst Asylum” e “Beirut”), mentre a costellarla vi sono, seminati a spaglio, ma con costanza, episodi di serie tv (alcuni ottimi: “the Wire”, “Treme”, “BoardWalk Empire”).
“Fractured”, questo suo ultimo lavoro, appartiene di diritto ed incontestabilmente alla calante fase discendente del regista, che mette in scena uno script di Alan B. McElroy, l'autore della saga di “Wong Turn” e di altri prodotti di seconda fascia (“Spawn”, "Star Trek: Discovery").
Quel che salva l'opera è la gestione di un dosaggio tutto sommato accettabilmente coerente delle intersezioni, degl'incastri, dei rapporti di causa-effetto, dei vicoli ciechi e delle svolte narrative, ma soprattutto il cast: il buon Sam Worthington (“Avatar”, “Texas Killing Fields”, “Everest”) riesce quasi sempre a mantenere la rotta, anche se a tratti sbanda, sbarella e s'ingavona, ma sono Lily Rabe (una via di mezzo fra Betty Gilpin e Rhea Seehorn), Adjoa Andoh, Stephen Tobolowsky, Dorothy Carroll e la piccola Lucy Capri a funzionare.
Fotografia di Björn Charpentier (“Beirut”), montaggio di Robert Mead e musiche del bravo Anton Sanko.
Un(ic)a minuscola interferenza nell'architettura: il riferimento al Lower Level (LL) gioca un po' sporco perché lascia ad intendere che – SPOILER – moglie e figlia siano finite alla camera mortuaria e quindi sia agganciato ad una reminiscenza di un probabile incidente d'auto avvenuto nei primi minuti (lacerti extra-diegetici di un possibile finale alternativo scartato o addirittura di un'intera costruzione alternativa?) in cui il protagonista è sopravvissuto e loro no, quando in realtà moglie e figlia non sono, mai, entrate (né da vive, né da morte) in quell'ospedale, e alla fine non si sa da dove salti fuori questo intervento esterno di un particolare così estraneo innestato nella e/o creato dalla ricostruzione del protagonista (può essere una rêverie relativa al primo trauma subito anni prima).
(**¾) ***
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