Regia di Jean-Claude Roy vedi scheda film
Diverse fanciulle si ritrovano in un collegio di formazione, dove ad insegnare sono severi tutori. Ma la materia più praticata sembra essere d'altro tipo. Ogni mancanza, anche di lieve tenore, viene rigidamente punita. Ottima l'idea, trascurabile per quanto noioso il risultato finale.
Parigi, ottobre 1935.
La giovane Sylvie (Obaya Roberts) rimane orfana, quando il padre si è suicidato dopo avere ucciso la moglie, colta in flagrante con un altro uomo. Il severo tutore di Sylvie decide di inviarla in un collegio nel quale, assieme ad altre ragazze, viene sottoposta a una rigida educazione, imposta con metodo di punizioni eccessive e spesso immeritate, talvolta sconfinanti nel sadismo.
Ormai coinvolto a pieno regime nel cinema a luce rossa, con lo pseudonimo di Patrick Aubin, il regista francese Jean-Claude Roy torna a dirigere un film drammatico, anche se circoscritto alla sfera erotica. In particolare guarda alla Justine di De Sade, spostando la storia all'interno di un collegio. Nonostante il soggetto, dalle esplosive potenzialità, e la presenza di attrici hard sopra la media per fascino e capacità recitative (oltre a Brigitte Lahaie in un ruolo marginale, la stessa protagonista Obaya Roberts), Educazione inglese procede svogliatamente in un clima di dimesso erotismo.
Quelle che dovrebbero essere giovani collegiali sono evidentemente avanti con l'età e le scene più oltraggiose si limitano a veloci sculacciate, docce collettive e qualche gioco particolare (il traino delle carrozze o l'addestramento felino). Lento, privo di una colonna sonora in grado di conferire un minimo di ritmo e con personaggi caricaturali (il travestito interpretato da Jean-Claude Dreyfus) che finiscono per essere involontarie macchiette. Da un regista esperto di cinema hard ne esce un innocuo film, per nulla drammatico e con un tasso erotico che si posiziona in prossimità dello zero.
“Si può dire che non ci sia nessun individuo sano che non aggiunga al normale scopo sessuale qualche elemento che si possa chiamare perverso; e la universalità di questo fatto basta per sé sola a farci comprendere quanto sia inappropriato l'uso della parola perversione come termine riprovativo.” (Sigmund Freud)
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