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Hombre

Regia di Martin Ritt vedi scheda film

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La recensione su Hombre

di scapigliato
8 stelle

Hombre, ovvero l’indiano bianco che odia i bianchi ma che muore per salvare la vita a una donna bianca che disprezzava gli indiani. Potrebbe dirne qualcosa anche Freud, ma ci pensa il western, quello puro ed inquieto del “nuovo cinema americano” che non solo ripensa ai contenuti in pieno revisionismo storico, ma ripensa anche alla grammatica del genere stesso, ai suoi miti, alle sue tecniche narrative, temi e motivi di una mitologia che ha fatto una Nazione. Se diamo per scontato che con il western puoi raccontare tutte le storie che vuoi, dai classici greci alla tragedia scespiriana alle modernità esistenzialiste, non ci possiamo stupire di vedere in Hombre una sintesi del cinema filo-indianista tanto in voga all’epoca, ma che affonda le radici ancora in epoca del muto – guardate The Massacre di Griffith, 1912. Non solo, Hombre non è semplicemente un film revisionista dalla parte dei pellerossa, sarebbe un’offesa all’intellettualità dell’autore Elmor Leonard, ma è molto di più.

Abbiamo un indiano bianco, Paul Newman detto Hombre – soprannome che vuol dirla lunga anche simbolicamente all’interno dell’impianto contenutistico del film – che non apprezza affatto il mondo dei bianchi da cui si guarda bene. L’attore dosa la sua recitazione con la stessa posa lapidaria di un autentico apache: poche battute, tutte taglienti, una freddezza al limite del disinteresse umano e un’asocialità traumatica che lo stigmatizza fin dall’inizio con un non-appartenente, un vero e proprio outcast. Quando infatti, a inizio film, appena scappati i cavalli selvaggi che cercava di catturare, scambia una serie di battute con il giovane Billy Lee, la sua posa statuaria, il suo distacco, ben fotografato e reso netto dalla regia di Martin Ritt, stagliano la pietra-Hombre tra le pietre del paesaggio naturale. Nonostante l’origine anglosassone di questo ribatezzato John Russell, la sua vera natura, la sua vera identità è apache. È indiano. Ma soprattutto, è uomo, come il suo nome. Paul Newman è quindi grandissimo a marginalizzarsi fino alla fine della pellicola, in un rapido duello dove la retorica del topos non indugia sull’eroe come nemmeno sui suoi sfidanti. L’attore lascia la scena ai suoi comprimari, l’avido Favor interpretato da Fredric March, l’umano e sornione Méndez di Martin Balsam, la coraggiosa e seducente Jessie di Diane Cilento e il gigionesco e brutale bandito interpretato da Richard Boone, ovvero Cicero Grimes. Loro sono i veri protagonisti, dotati o di ampie sfumature caratteriali come di profonde ambiguità, piuttosto che dotati di un monolitismo tipico dei grandi personaggi epici, di cui il western sappiamo esserne un’appendice moderna. Lui, Hombre, Paul Newman, si defila, si marginalizza sia testualmente che polticamente, eresta mito, archetipo, come un vero eroe epico.

Attraversando alcuni topoi tipici del genere, come la stazione di posta, il viaggio in diligenza – che rilegge sempre caleidoscopicamente la varietà umana in linea con le “ombre rosse” di John Ford – la miniera fantasma, l’attraversamento del deserto e il duello finale – qui un insolito “triello” celebrato poi da Leone – la regia di Martin Ritt usa il corpo-Newman per deflagrare la pochezza della tanto sbandieratà unità dei bianchi. Messi alla berlina dalla situazione di pericolo, eccoli aiutarsi come calunniarsi, senza contare l’emersione di vigliaccherie e abomini sociali che in confronto l’agguato dei banditi con tanto di rapina sembra un atto di beneficienza. Infatti, l’agente indiano Favor, sta scappando con la moglie verso il Messico con dodicimila dollari sottratti all’agenzia indiana di San Carlos. Soldi che servivano per sfamare gli indiani, che invece pativano la fame e mangiavano cani. Ecco che l’umanità s’incarna nella figura-Hombre, e quindi nel corpo attorico di Paul Newman, nelle sue pose, nella sua freddezza, nella sua marginalità.

Come un bisturi, il finale arriva a incidere indolore, ma sempre con effetto, la parabola di un bianco che rinnega i bianchi e diventato indiano muore per salvare la vita ad una donna bianca, la moglie di Favor, che mai avrebbe mangiato un cane come quelle bestie di indiani. Non solo un grande romanzo di partenza, ma un ottimo film che seppur prediligendo la staticità di un dramma da camera, spazia nel paesaggio aspro del sudovest americano come nel sistema dei personaggi la cui strutturazione lo rende per definizione “western maggiorenne”.

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