Steven Spielberg ha sempre parlato controvoglia di Indiana Jones e il tempio maledetto (1984), sottolineando come l'unico elemento positivo di quella deludente pellicola fosse stato l'aver conosciuto Kate Capshaw, sua sposa dal 1991, chiamata ad interpretare Willie Scott, cantante del night club in cui si apriva il film.
Infatti, l'unico aspetto notevole del secondo capitolo dedicato all'accademico-avventuriero più famoso al mondo si rivelò essere l'incipit musicale, autentica perla che sembrava provenire da una magistrale scena di alleggerimento (leggi: quiete prima della tempesta) di un noir d'antologia anni Trenta. Una coreografia degna di Broadway - con insospettabili ammiccamenti alla screwball comedy - la cui complessità d'esecuzione era stata messa in scena con una sapienza, in particolare nell'uso del montaggio e del sonoro, davvero sbalorditiva. Da quel momento in poi, il film si sarebbe man mano infiacchito, sbiadendo in un piatta avventura dal tono inutilmente dark e dal ritmo altalenante. Eppure, tantissimi, consciamente o inconsciamente, al momento dell'uscita nel 1984 o ex post negli anni e nei decenni a venire, avrebbero fantasticato, alla luce di quell'incipit, su un eventuale musical diretto da Steven Spielberg
Steven Spielberg, fan sin da bambino del leggendario musical di Leonard Bernstein, Arthur Laurents e Stephen Sondheim che aveva già avuto una strepitosa trasposizione cinematografica nel 1961 diretta dallo spendaccione Jerome Robbins a cui la United Artists aggiunse il parco Robert Wise per contenerne i costi, decide, superati i 70 anni (dettaglio niente affatto trascurabile che tornerà utile in seguito), di confrontarsi con un libretto intoccabile. L'avvicinamento ai classici della letteratura o del teatro è quanto di più difficile un artista possa fare in carriera. Si può attualizzare senza snaturare? Si può restare fedeli senza risultare sussiegosi? Si può superare un illustre precedente cinematografico?
Al regista di Cincinnati bastano i primi 2 minuti per far capire che il magistrale incipit di Indiana Jones ed il tempio maledetto non fosse stato una casualità fortunosa in un film altrimenti dimenticabile. Un dolly - avvolgente nella sua cupezza, elegante nella sua malinconia, suadente nella sua impotenza - ci conduce nel West Side di New York, ci mostra le macerie di palazzine popolari distrutte negli anni Cinquanta per far spazio al lussuoso ed ancora oggi esistente Lincoln Garden. Un movimento di macchina che, in ossequio alla regola d'oro della narrazione cinematografica show, don't tell, si rivela un manifesto programmatico del funereo spettacolo a cui i nostri occhi assisteranno. Non l'ennesima riproposizione del classico shakespeariano Romeo e Giulietta bensì il canto funebre di un'epoca, di una generazione e di un certo modo di fare ed intendere il Cinema. Cinema puro, purissimo sin dal primo frame, che fa dell'immagine in movimento il proprio fulcro, non le linee dialogiche da serie tv che fanno credere a tanti spettatori contemporanei che le sceneggiature debbano essere equazioni matematiche. Cinema destinato a non poter più incidere nelle società contemporanee - e il fallimento al botteghino tanto negli USA quanto in Italia ne è in qualche modo testamentario - e a diventare rottame pronto a lasciare spazio a lussuosi e autoreferenziali servizi streaming fruiti nel triste privato delle proprie abitazioni
C'è aria di morte dietro la superficie luccicosa delle straordinarie coreografie di Justin Peck: i personaggi si agitano tra loro come fantasmi che nessuno vede né vuole vedere, così come nessuno è in grado di capire la forza dell'amore tra Maria (una bravissima Rachel Zegler) e Tony (Ansel Elgort), nessuno ha la minima intenzione di porre fine all'insensata schermaglia tra i Jets di origine europee e gli Sharks, immigrati portoricani, nessuno si sente chiamato a portare giustizia ma, al massimo, repressione
Il genere musical che, per definizione, richiede allo spettatore una sospensione dell'incredulità più incisiva per via delle scene di canto e ballo in momenti in cui non ci si aspetterebbe ciò, viene sfruttato da Spielberg come rifugio ultimo della Settima Arte. Non è un caso: il musical nacque come rappresentazione del teatro statunitense alla fine dell'Ottocento, proprio quando il Cinema muoveva i primi pionieristici passi, e si liberò dalle influenze dell'operetta e del varietà divenendo un genere a sé stante proprio negli stessi anni in cui la Settima Arte iniziò a divenire popolare presso il grande pubblico. Il primo film sonoro della storia del cinema, Il cantante di jazz (1927), è, infatti, un musical ed è coevo del leggendario Show Boat, messo in scena a Broadway su musiche di Jerome Kern e testi di Oscar Hammerstein II, che segnò uno spartiacque nella storia del teatro americano. Spielberg approda, dunque, ad un genere che ha da sempre avuto una corrispondenza bigettiva col Cinema, torna lì dove la magia della sala cinematografica rappresentava il non plus ultra del progresso artistico e tecnologico. E, come solo i grandi sanno fare, congiunge la propria storia a quella corrente
Ecco emergere prepotentemente il dettaglio anagrafico citato in precedenza: Spielberg ha ormai più di 70 anni, i suoi amici e colleghi hanno ormai più di 70 anni e, come spesso capita quando la fine è più vicina dell'inizio, riflette su ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà. Scegliere, in tal senso, West Side Story come base portante per una riflessione sul tempo che passa non è casuale. L'adattamento del 1961, infatti, rappresentò uno degli ultimi straordinari colpi di coda finali del cinema classico americano ormai moribondo che da lì a qualche anno sarebbe stato spazzato via. E chi avrebbe dato la spallata definitiva al cinema classico americano? La New Hollywood, cioè Spielberg e soci
La superba coreografia di America, nel suo rimandare esplicitamente alla versione cinematografica, si caratterizza precipuamente per numerosi movimenti circolari, fotografati da Janusz Kaminski con cromatismi spesso dissonanti - come il testo stesso - tra un'inquadratura e l'altra, e termina in un'ampia strada newyorkese. Il cerchio è una figura geometrica estremamente significativa e rappresenta la ciclicità della vita che è anche la ciclicità dell'arte
Steven, Martin, Francis, George, Woody etc. e, prima di loro, Arthur, Mike, Dennis, etc., furono le palle demolitrici dei decrepiti palazzi del West Side. Diedero sublimemente agli spettatori quello che gli spettatori desideravano, condensando le proprie opere di un manto universale che le rende ancora attuali. Ora, cinquant'anni dopo, da rottamatori sono divenuti rottamati. Da agenti attivi del cambiamento sono divenuti soggetti passivi. Non resta, forse, che prendere atto del cambiamento, concedersi un ultimo amaro giro - e le macerie dell'incipit ricordano in maniera inquietante la Xanadu cimiteriale di Citizen Kane - e comprendere che, alla fine, di ciclo in ciclo, diventare classici non significhi necessariamente non poter continuare ad incidere nelle società del domani. Esattamente come fa nel 2021 un musical di Broadway degli anni Cinquanta
Magia del Cinema, magia della vera Arte che rende immortali
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