Regia di Jean Rollin vedi scheda film
Il migliore tra gli ultimi lavori del maestro francese, padre putativo delle vampire lesbiche e della malinconia che -obbligatoriamente- attraversa l'esperienza che chiamiamo vita. Con lunghe sequenze mute, belle immagini romantiche, e una storia volutamente fumosa, quasi onirica.
Louise (Alexandra Pic) e Henriette (Isabelle Teboul) sono due giovani ospiti dell'orfanotrofio Orphelinat les Glycines, della fondazione Saint-Aubin. Senza un passato, afflitte da cecità (in realtà solo durante il giorno), vengono prese in custodia dal dottor Dennary (Bernard Charnacé) che le adotta come figlie, facendole trasferire nella sua stessa casa parigina. Durante la notte, favorite dal ritorno della vista -simbolicamente dalla tonalità blu- le due ragazze escono frequentando cimiteri per poi mettersi in cerca di vittime cui succhiare il sangue. Convinte di essere una della tante reincarnazioni di antiche divinità azteche -l'una Murciélago, l'altra Quetzalcóatl- Louise e Henriette non esitano a sacrificare chi incontrano nelle loro passeggiate notturne. Le ragazze non sono le uniche creature della tenebre: incontrano infatti, in una stazione ferroviaria, una donna licantropo e, in seguito in un enorme cimitero, una divoratrice di cadaveri. Morbosamente legate l'una all'altra, arrivano ad eliminare anche il loro tutore, Dennary, per poi tornare all'orfanotrofio, certe di essere bene accolte dalle amorevoli suore. Ma la sete di sangue è troppo forte per loro, tanto da spingerle ad uccidere di nuovo, questa volta due orfanelle. Costrette alla fuga, inseguite da un uomo armato, troveranno finalmente la pace, tra le accoglienti e pietose acque di un fiume.
Da un suo stesso romanzo, dopo avere frequentato per alcuni anni l'hard-core (con cose tipo Sodomanie o Folies anales), Rollin torna -fuori tempo massimo- al tema lesbo-vampire. Chiama, a interpretare un piccolo ruolo, la sua musa ispiratrice, Brigitte Lahaie, quell'attrice di hard che avrebbe meritato ben altro destino. E, sempre in veste di comparsa, vuole anche Tina Aumont. Probabilmente per provare al pubblico, ma soprattutto a se stesso, che non è un regista di porno. Infatti, nonostante sia prossimo il XXI° Secolo, Rollin rimane legato alle suggestioni romantiche, decadenti, malinconiche che hanno attraversato -in maniera pressoché lineare- tutta la sua filmografia horror precedente. Contenuto sia sul piano erotico (con un rapporto lesbico solo suggerito) che su quello macabro, Les deux orphelines vampires si muove, con delicatezza, in un mondo onirico, quello di due ragazzine che non sanno chi sono, da dove vengono e, soprattutto, dove sono dirette. Una vaga idea, in parte, le sfiora quando si avvicinano a un cimitero. "Veniamo da lì", sussurra Henriette indicando le lapidi trascurate e danneggiate, abbandonate dai parenti dei defunti e quindi senza più memoria di vita, poiché dimenticate proprio dai vivi.
Come in un sogno lucido, consapevole, Louise ed Henriette vagano nottetempo, ricordando epoche passate, riti sanguinari (il multiplo sacrificio azteco compiuto nel XV° Secolo), vite passate, probabilmente da loro stesse già vissute. Sono due fantasmi, più che vampiri, legati l'un l'altro da un destino tragico. "Chi siamo veramente?", domanda Louise ad Henriette, ottenendo un'ambigua risposta: "Forse non siamo nessuno. Forse, presto, saremo di nuovo sparite. Ma torneremo. Saremo vento sotto la pioggia, saremo quegli elementi di cui le persone hanno più paura: boato e tempesta."
Non è la trama quello che interessa al regista, quanto -ancora una volta- immergersi in immagini dal sapore dolcemente malinconico. I dialoghi rarefatti, le musiche romantiche (opera dell'ispirato Philippe D'Aram), i tristi sorrisi delle due brave piccole protagoniste: tutto contribuisce a rendere l'esperienza di visione un viaggio senza mèta, da affrontare camminando lentamente, come zombies, nei tortuosi sentieri della disillusione.
"Tutti possono essere tristi; ma la malinconia resta l’appannaggio delle anime superiori." (Georges-Eugène Faillet)
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