Regia di Salvo Ficarra, Valentino Picone vedi scheda film
Il primo Natale, la duemiladiciannovesima farsa.
Firmata-filmata Ficarra & Picone, funambolico simpatico duo campione di opportunismo, cerchiobottismo e innata, invidiabile paraculaggine.
Ma in punta di leggerezza, di (sfacciato, sfiancante) garbo; e in forma di fiaba-raccontino morale, una parabola buona per tutte le stagioni e le parrocchie, per tutti i palati, per tutti i cul(t)i. Per chiunque possa, in sostanza, riconoscere brandelli del proprio pensiero e farne corpo da mitizzare. Democristiani nell’intimo, sin dall’anno zero, virati in zona populista (da qualunque parte si osservi, non c’è bisogno di dirlo).
Il puerilissimo finale – peraltro ampiamente prevedibile nel momento esatto in cui compare («Compare!» … Eh, momenti di umorismo siculo purissimo) un elemento assai noto alle nostre cronache – attraversa i mar(os)i dell’oltre-banalità e dell’ultrastucchevolezza per annunciare la incredibile filmica essenza: ed è una pagliacciata, una carnevalata.
Un presepe vivente modello cartapesta di morenti modelli incartapecoriti prestati alla sceneggiata. Natalizia; dunque caduca, docile, ritornante, ruminata e ruminante l’estrema (f)unzione: l’autoassoluzione.
Un facilismo patetico a cui corrisponde un poverismo d’immaginario da far cascare braccia, catene, scarti catarrosi: nemmeno il più miracoloso dei miracoli può porre rimedio a scenari che paiono il frutto alcolico e scherzoso di una compagnia di dopolavoristi impegnati a riprodurre modesti siparietti da sandalone, a una Giudea di duemila anni fa abitata da volti e linguaggi e modi italici (sempre i dilettanti di cui poc’anzi), a un miscuglio di location residuali, a un ridicolo Popolizio/Erode eroso da patemi esistenziali e pestilenziali (tipo: «chi minchia me l’ha fatto fare?!»).
I Nostri, però, son indefessi nel perseguire la missione per conto di dio (cioè loro stessi, o il dio-denaro, o il dio-fama, boh), a dispetto di cose che non stanno né in cielo né in terra né sullo schermo (e invece ci stanno, ahinoi): la dinamica di coppia segue vie lastricate di buon(ist)e intenzioni, tutte strabattute e riciclate, rigurgitate in un tripudio di derivatività che attinge a pezzi della nostra commedia più gloriosa (il richiamo più immediato è Non ci resta che piangere: eresia solo a nominarlo! M’autoflagello) mentre si dispiega lungo le rotte astrali della fiction più familista, generalista, rassicurante (alla Che Dio ci aiuti, per capirci).
Il copione imbarazza per pressappochismo e grossolanità; teso com’è, d’altronde, unicamente a “esaltare” la verve comica di Ficarra & Picone; peccato (peccato!) che – sarà per via del mortifero, gaio clima oratoriale, chissà –, la vena battutistica si riveli (finanche inaspettatamente) stitica, scarica, esaurita, tanto che neppure uno slogan comodissimo quale «Roma ladrona!», buttato random giusto per prendere l’applauso automatico, riesce a far spalancare le mascelle dello spettatore perennemente strette in malcelate espressioni di circostanza e impazienza.
La celebre, celebrata coppia di Striscia la Notizia – come d’abitudine nella multipla veste di attori, registi e cosceneggiatori – pensa a una commedia fantastica dai toni agrodolci, educativi, “umani” ma fallisce mestamente in tutto: tempi comici, registro, ritmo, codazzo, andazzo, stoccaggio iconografico/feticistico, storia, contenuti, quantità di zucchero e infantilismo e afflato popolar-religioso, fino al risibile approdo terminale in acque farsesche, scollegate dalla realtà (l’elemento fantastico non c’entra, eh): il presepe è sempre bello, l’atmosfera festiva pure, la candida predichetta sui valori idem. Così il fedele della domenica, del cinema parrocchiale, della pantomima innocua e innocente, è contento. E con la coscienza (ri)pulita.
Che teatrino insopportabile.
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