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L'immensità della notte

Regia di Andrew Patterson vedi scheda film

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La recensione su L'immensità della notte

di mck
8 stelle

Ok Fay, run!

 

Ed infatti eccola qui tutta intenta a correre, Fay {una bravissima Sierra McCormick out-of-disney-factory [in perfetta divisa fifties col suo outfit d’ordinanza che la rende quasi una cosplayer (sailor fuku d’oltreoceano) di Audrey Horne, la quale a sua volta...] che si spalleggia egregiamente con l’altrettanto - se pur diversamente - ottimo sparring partner Jake Horowitz: le riprese si sono svolte alla fine del 2016 ed entrambi gli attori erano al loro primo ruolo serio e adulto}, preferendo far mulinare le proprie gambe invece che far scorrazzare i pistoni di un’automobile per andare da A a B nel minuscolo paesotto di Cayuga (Rod Serling docet...) sperduto nel profondo New Mexico (interpretato dal profondo Texas) in cui vive (collateralmente, “non può che” insorgere alla mente la giovane Sarah Palmer immersa in un mood hopperiano virato in bianco & nero alle prese con artropodi anfibi & batraci ortotteri).

 


La terrificante vastità immensa straripante di stelle del nero cielo notturno. Xeno-turismo spaziale (con souvenir antropomorfi). 
Quel che non è in gran parte riuscito a Jordan Peele col suo recente ennesimo revival di “the Twilight Zone” (qui traslato attraverso il metacinematografico espediente del “Paradox Theater Hour”) - e mi riferisco in particolare all’episodio “A Traveler” diretto da Ana Lily Amirpour - riesce alla grande ad Andrew Patterson, classe 1982 dell’Oklahoma, con questo “the Vast of Night”, la sua opera prima nel lungometraggio e già una dichiarazione d’intenti - tra la mitopoiesi e l’archetipo - nel titolo.
Tutto già visto - prima, durante e dopo “Close Encounters of the Third Kind”, che già di suo era, oltre che pietra miliare, un catalizzatore ed un creatore di immaginario tanto preesistente quanto originale - e tutto così ingenuo, innocente, sincero, nuovo!
La notte. Un mistero e un segreto. Un’avventura. E qualcosa, di luminoso, in cielo. Che si libra. E poi scende. "Gotta light?"

 


Piccola gemma grezza di scrittura [la consapevole sceneggiatura (costellata di semplici, giocosi, intriganti e teneri riferimenti e rimandi al retroterra contestuale, iniziando dal wells/welles-iano nome della stazione radio...) è co-firmata dal regista con Craig W. Sanger], stile (da confrontare con “los Parecidos” di Isaac Ezban), recitazione (Fay-che-corre) e soprattutto di gestione dei blocchi narrativi all’interno dell’intero arco evolutivo della storia che, tra long take, dialoghi fitti e pieni di slang ed una sincera, divertente e a suo modo iperrealistica atmosfera calata nel proprio zeitgeist (guerra fredda, maccartismo, rock ’n’ roll), si costruisce davanti ai nostri occhi (il montaggio è anch’esso opera dello stesso regista che si firma con uno pseudonimo à la Coen bros./Soderbergh). 

 


Fotografia del cileno-spagnolo-messicano M.I. Littin-Menz, l’unico professionista della crew: molto bello il - tra i tanti presenti - truedetectivo falso (essendo composto da più passaggi analogici uniti assieme digitalmente) piano sequenza realizzato con una MdP montata con dei giunti cardanici (in semi-steady) s’un go-kart. 
Musiche: Eric Alexander & Jared Bulmer.

 


Sempre del 2019 è “the Bumbry Encounter”, un cortometraggio di Jay K. Raja che, pur ambientato poco più di un lustro dopo, ad inizio anni ‘60, potrebbe svolgersi nello stesso universo cospirazionista (prendendo lo spunto d’abbrivio dal “caso” dei coniugi Betty e Barney Hill), ma soprattutto - ed in questo senso ben in linea col nostro - sempre pervaso dalla medesima questione razziale.

 

 

E, a proposito della percentuale di melanina, un aneddoto: durante il primo “spiegone”/flusso di coscienza, quello attraverso il telefono e la radio (mentre il secondo avverrà vis a vis, passando da un ex soldato nero, Bruce Davis, ad un’anziana signora bianca, Gail Cronauer), ascoltando la voce dell’interlocutore al microfono uscire dagli altoparlanti attraversando fili di rame ed etere ho subito pensato - e come non riandare con la memoria recente ad uno dei temi principali di “Sorry to Bother You” ed in particolare a questa scena - che la persona fosse di colore: probabile caso di corretto bias cognitivo causato da “Put a nigger [or mexican, italian, asian…; NdR] behind the trigger!” (“Sempre il negretto [o il messicano, l’italiano, l’asiatico…; NdR] dietro al grilletto, eh?”).

 


Titolo perfetto da gustarsi in un’arena estiva o in un drive-in {ed infatti in Iuessei è andata così [presentazione ad inizio 2019 allo SlamDance Film Festival ed uscita (“grazie” alla CoViD-19 del SARS-CoV-2) nei cinema-car all’aperto nella primavera del 2020], mentre qui da noi ci si deve accontentare di Amazon Prime Video} con pulzella o ganzo al seguito.

 


Ok Fay, run!

* * * ½ (¾) - 7 (½) 

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