Regia di Antonio Margheriti vedi scheda film
Seconda versione in chiave western del precedente "Danza Macabra". Nel film originale, come nel successivo remake "Nella Stretta Morsa del Ragno", il protagonista entra in un luogo orrorifico vivendo un'orribile vicenda a stretto contatto con elementi soprannaturali, qui invece è il protagonista stesso, tratteggiato come presenza soprannaturale, ad irrompere nella vita quotidiana di un semi-deserto villagio western. Il tocco di Margheriti, come in altri suoi film gotici, valse a definire "E Dio Disse a Caino..." il raro titolo di western-horror appartenuto in precedenza solo ad un ristretto gruppo di pellicole come "Se Sei Vivo Spara!", "Joko: Invoca Dio... e Muori" sempre di Margheriti, e "Django il Bastardo", di cui però ne è l'esempio più perfetto. Infatti, la decostruzione del codice western diventa nel film di Margheriti l'essenza stessa del film. L'unità di luogo, tempo e azione non è l'unico aggancio alla tragedia, lo sono anche i personaggi del cattivo Acombar, della sua donna Maria, e del figlio Dick. Inoltre i movimenti di macchina, gli stacchi secchi e repentini, le ambientazioni ereditate dall'horror gotico italiano e tutti i suoi richiami (tra cui la faccia di Luciano Pigozzi), permettono al regista di plasmare con le proprie mani artigiane un film indiscutibilmente affascinante e senza un passo falso che fosse uno. Tutto, dall'inizio solare e accecante, fino all'addio al tramonto, passando per una lunga notte cupa e oscura, è girato con consapevolezza. L'intenzione del regista non rimane sulla carta, ma viene resa bene fin dal profilmico per arrivare dritta al filmico, aiutata da un grandissimo montaggio che fa della storia un grande delirio onirico.
I tratti indefiniti del linguaggio adottato, che ricordano i Bava migliori, e dopotutto abbiamo Margheriti in regia, addizionati ad oggetti, caratteri, dialoghi invece molto precisi e curati che si caricano di ansia, permettono di palpare la stressante attesa dell'uomo che va al patibolo: quel Acombar (Peter Carsten) che depredò un carico d'oro e di cui fu accusato Gary Hamilton, ovvero Klaus Kinski. Il grande attore tedesco è qui in una delle sue migliori interpretazioni dopo quelle in coppia con Herzog. Senza eccedere nel istrionismo che lo qualificava da sempre come pazzo furioso, un'assetato di violenza e follia, Kinski dà al suo personaggio, un angelo della morte in tutti i sensi, una vera caratura soprannaturale nella quale vengono concretizzate tutte le paure e tutti i timori dei cattivi di turno, da Acombar ai suoi sgherri. Il suo Gary Hamilton è un po' quello che era stato l'assassino mascherato di "Sei Donne per l'Assassino" di Mario Bava e dei suoi epigoni argentiani, e ricorda da vicino anche quello che sarà l'archetipo del mostro svuotato di personalità, incarnazione fisica del male: il Michael Myers di John Carpenter. Kinski, con poche battute ma con una faccia e un corpo che dicono tutto, primeggia su ogni altro attore e ci porta con il suo sguardo desolato nella desolazione di una terra di sangue, che sa ciò che le aspetta.
Temporali che sanno di apocalittico, una lunga notte di sola oscurità, i tetri rintocchi della campana, la lugubre chiesa infestata da cadaveri, e quegli spari che rimbombano fuori nella notte mentre nella quieta casa borghese i suoi abitanti portano avanti le proprie preghiere, sono tutti elementi che arrivano dal cinema horror, ma che asciugati dei loro riferimenti soprannaturali, arrivano al western con una potenza devastante. Le scene dilatate all'inverosimile sono l'esplicita prova di un disagio che da visivo e narrativo diventa anche fisico.
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