Regia di Jean Rollin vedi scheda film
Il tema dei morti viventi, nell'ottica di Jean Rollin, deve necessariamente passare attraverso il malinconico argomento delle vampire lesbiche. Stavolta però la sensualità (solo suggerita) cede il posto allo straziante sintomo della tristezza. Che può colpire anche una ragazza giovane e bella, quando afflitta dal male di vivere.
Dopo avere depositato in una cripta dei rifiuti tossici, due uomini fanno razzia di oggetti dalle tombe dei defunti. Un terremoto provoca la fuoriuscita delle sostanze tossiche riportando in vita Catherine (Françoise Blanchard), che uccide i due ladri e si dirige verso il castello in cui ha vissuto per anni, prima di morire prematuramente. Barbara e Greg, coppia di fotografi americani occasionalmente sul posto, scattano una fotografia di Catherine scoprendo dai paesani che la ragazza è morta due anni prima. Nel frattempo Catherine ritrova l'amica d'infanzia Hélène (Marina Pierro) che l'aiuta a procurarsi le vittime necessarie a saziare il suo appetito di sangue. Perchè il ritorno dalla morte di Catherine richiede un alto prezzo da pagare: per sopravvivere deve nutrirsi con il sangue degli esseri umani.
Nei primi Anni '80 il romanticismo -con i suoi castelli gotici, le spiagge deserte, le malinconiche vampire- tanto caro a Rollin ha ceduto il posto ad un tipo di cinema più viscerale, esplicito, violento. Il successo internazionale di Zombi (George A. Romero, 1978) per oltre un decennio influenzerà tutto il cinema horror. Al punto che, quando viene realizzato La morte vivante, era scontato -per non dire d'obbligo- trattare il genere dei morti viventi. Un dogma, per chi all'epoca intendesse realizzare un horror. A dire il vero già l'anno prima Rollin ci aveva provato, dimostrando di essere estraneo al tema, non sentito e non nelle sue corde, come dimostra Zombie lake, forse tra i peggiori film del regista. Questa volta, invece, corregge il tiro e gira uno zombie-movie con una cifra stilistica personalissima, sommando alla sua poetica precedente elementi tipici del "nuovo" argomento.
Violentissimo per l'epoca, con effetti splatter in apertura e in chiusura, La morte vivante è un'opera velata da un costante senso di malinconia, ben reso dalla triste -spesso con il viso solcato da lacrime- Françoise Blanchard, ritornante dall'Inferno e costretta a restare in un mondo che non è affatto migliore. È una zombi, Catherine, ma non si muove come ci erano stati fino ad allora proposti i morti viventi. Ha invece il tocco, la classe, l'appeal di un'addolorata vampira; non solo nelle posture che assume o nei gesti armoniosi che compie, ma anche per l'inevitabile necessità di bere sangue. Ecco perchè Rollin si sente qui più a suo agio, infatti sotto altra veste ripropone le sue amate vampire (non è da meno, infatti l'amica Hélène, viva ben più pericolosa dei morti). Ancora vampire, ancora lesbiche dunque. Perchè grazie al sotteso rapporto omosessuale con l'amica, Catherine ritrova la memoria (complice un carillon e una promessa fatta con il sangue) e quindi -in parte- la vita.
Certo, per l'ennesima volta la storia è debole, quando non impossibile. Può un corpo conservarsi, dopo la morte e a distanza di due anni, in quel perfetto stato? Catherine si presenta bellissima, con un fisico scultoreo e un viso radioso, fatto certamente poco plausibile dopo tanto tempo trascorso Aldilà. Ma non è, ancora una volta, la sceneggiatura che interessa al regista. Quello che interessa a Rollin sono, come sempre, le suggestioni visive, i malinconici zoom -d'allontanamento -all'indietro (sorprendente quello che anticipa i titoli di coda), i romantici campi lunghi puntati su castelli circondati da cieli al tramonto. Le due protagoniste, nel film, appaiono spesso come sagome avvolte da flebili luci, circondate da un manto di ineludibile malinconia, testimonianza di un male di vivere che va oltre le barriere della morte. Un male di vivere che, per quanto Catherine tenti di allontanarlo, come un boomerang gli ritorna addosso, prepotentemente, insistentemente e con più intensità. Come infatti si può intuire dalla lapidaria sentenza che pronuncia quando, sconsolata, si rifugia nel sotterraneo ricolmo di tombe: "Il mio posto... è dentro questa cripta."
Françoise Blanchard se ne è andata per sempre, a soli 58 anni d'età, nel 2013: "Addio angelo triste, dal volto lacrimoso, che la terra ti sia lieve."
"Quando un uomo muore, un capitolo non viene strappato dal libro, ma viene tradotto in una lingua migliore." (John Donne)
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