Regia di Galder Gaztelu-Urrutia vedi scheda film
Distopia essenziale e cruda, forte dell'ambiguità contestuale
Il punto di forza de “Il buco” è l’indefinitezza del contesto: mano a mano che scorre la cruda vicenda non riceviamo maggiori informazioni per delucidare il luogo e il tempo in cui si svolge, invece constatiamo dopo i primi minuti, in cui dei cuochi sono intenti a preparare pietanze, che ci troviamo in una prigione. La bellezza e l’interesse provengono dai quesiti dello spettatore: chi ha introdotto questa nuova forma di reclusione? Perché è stata creata? Che tipo di società c’è al di fuori del contesto claustrofobico della cella?
O meglio, delle celle, dato che si tratta di un complesso con svariati piani uno sopra l’altro.
Il più alto riceve la tavola imbandita splendidamente di prelibatezze varie e chi si trova al di sotto deve fare i conti con gli avanzi, sempre della stessa tavola. Ogni cella ha due persone, due compagni che devono convivere con i loro caratteri e i loro bisogni. Altra regola non piacevole: il recluso cambierà cella più di una volta durante il periodo di permanenza. Una regola che deve la sua esistenza probabilmente alla questione di uguaglianza e “giustizia” istituita dalla politica imperante.
La messa in scena di Galder Gaztelu-Urrutia, oltre ai significativi e frequenti campo-controcampo aventi come soggetto i due coinquilini, presenta una fotografia fredda dell’ambiente, spezzata dai colori del cibo, che invadono l’inquadratura in due modalità: o ponendosi al centro, sulla gigante tavola, occupando maggior spazio delle misere figure umane, oppure sono dettagli, disgustosi beni primitivi dell’uomo, limitato, vulnerabile, dipendente dall’alimentazione, non più lusso, ma necessità.
E’ interessante studiare le diverse combinazioni dei personaggi, i fantasmi che si innestano nella mente del protagonista, le mentalità che Sartre avrebbe definito come “Inferno”: la paura dell’altro, del diverso e la lotta per la sopravvivenza che corrisponde alla lotta dei cervelli e delle filosofie. In questa società distopica non è chiaro cosa rappresenti effettivamente la prigionia, dato che esiste un “certificato di permanenza”. Dunque potrebbe essere letta come un lusso, ma non nell’accezione di benessere, bensì di Merito, di conseguimento di un pezzo di carta che premia chi combatte e chi ha il coraggio di nuocere il prossimo in cambio della tranquillità e della meditazione (per leggere un libro per esempio), impresa impossibile in un futuro sempre più volto alla moltitudine, non all’individualità.
La pellicola intrattiene, turba e fa riflettere. Le fasi della prigionia sono in crescendo, in una struttura narrativa a tasselli che culminerà nel triste prezzo per la verità, e che non ha bisogno di mostrare il passato con flashback, ma riesce a raccontare un brutto futuro puntando su immagini macabre e parole mai ridondanti.
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