Lo spagnolo Goreng vorrebbe del tempo tutto per sé, in cui smettere - magari - di fumare e leggere - finalmente - il Don Chisciotte di Cervantes. Gli si presenta l'occasione iscrivendosi al CVA - Centro Verticale di Autogestione, un buen retiro dove trascorrere sei mesi in meditazione, e ottenere, alla fine del percorso, un attestato di permanenza (per cambiare vita?).
Come sempre le cose non sono come sembrano.
Il CVA è, in realtà, un'immensa prigione, costituita da 333 piani sovrapposti, abitati ognuno da due prigionieri. Al piano 0 un ristorante extralusso depone le prelibate pietanze su di una piattaforma che viene fatta calare attraverso 'il buco' del titolo. Al 50mo piano le vivande sono già quasi tutte esaurite.
Primo lungometraggio del regista basco Gaztelu-Urrutia, proveniente dalla pubblicità, nel quale compendia tutto il suo pessimismo antropologico (Bentornato Homo homini lupus!) fatto di verità continuamente celate, di incoerenza fra pensiero e azione, e in questa incessante lotta per la vita il tradimento sembra essere l’unica moneta di scambio possibile. Copiosi i riferimenti al cinema più illustre, da Scorsese a Ridley Scott, e al cinema di nicchia à la Jeunet e Marc Caro. Il Buco, comunque, cavalca l’onda ispanica podemista post Casa de Papel e strizza idealmente l’occhio al distopico sudcoreano contemporaneo, che sia Parasite o Squid Game poco importa, le frequenze sono quelle.
Perfette la scenografia carceraria di Azegiñe Urigoitia e le luci grigiastrofobiche di Jon D. Domínguez.
Minimalista da debito di ossigeno il commento musicale di Aranzazu Calleja.
Un film durissimo e scomodo, per stomaci forti, ma foriero di profonde riflessioni sull'oggi.
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