Regia di Gabriele Muccino vedi scheda film
NEI CINEMA ITALIANI DAL FEBBRAIO 2020
VISTO SU RAI PLAY NEL MARZO 2022
Non esistono vite felici e di successo come non esistono drammi a senso unico ed esistenze fallimentari. Le umane vicende sono una combinazione spesso imprevedibile di ingredienti che gettano donne e uomini in un frullatore di situazioni, emozioni e stati d’animo in continuo divenire e mutazione.
Ultimo dei dodici lungometraggi del romano Gabriele Muccino, questo I giorni più belli dà l’idea di essere stato creato come condensato de La meglio gioventù (2003) - epocale, apprezzato e premiato film di Marco Tullio Giordana - per la complessità temporale che si prefigge di ripercorrere e analizzare. Anche in questo caso il motore delle vicende è un gruppetto di amici d’infanzia, le cui storie sono riproposte dallo script dello stesso Muccino (con Paolo Costella), ispirato dal C’eravamo tanto amati dei mitici Age & Scarpelli nel dispiegarsi del periodo storico lungo circa quarant’anni in Italia, a partire dal 1982 fino ai giorni nostri. Purtroppo il risultato è in gran parte sconfortante, fatte salve poche scene vagamente coinvolgenti.
Ogni momento esistenziale e sociale è impregnato di retorica e stereotipi, difetti che soprattutto nei primi trequarti dell’opera rendono assai frantumata la godibilità della narrazione in immagini, con passaggi di bassissima plausibilità e autentici scivoloni nella banalità commerciale e di livello assai prossimo alla più mediocre fiction televisiva. Gabriele Muccino – che in passato mi aveva conquistato grazie a due film guarda caso realizzati in Usa e di produzione Columbia Pictures, come La ricerca della felicità (2006) e Sette anime (2008) – chiama a raccolta alcuni suoi attori feticcio e scommette tutto sulle loro di norma indiscutibili qualità.
A cominciare da uno degli interpreti italiani più bravi degli ultimi vent’anni, Pierfrancesco Favino (da poco nelle sale italiane con la commedia Corro da te), troppo ingessato e meccanico, senza i soliti guizzi nei panni di Giulio Ristuccia, figlio di un meccanico burbero e traffichino e quindi voglioso di riscattare un’infanzia stentata con una vita di successi professionali ed economici a discapito dei nobili ideali di gioventù. Per continuare con Claudio Santamaria (fra i protagonisti dell’apprezzato Freaks Out, nel 2021), qui condannato al ruolo dello ‘sfigato’ Sopravvissù (terribile soprannome, fra l’altro scritto erroneamente con l’accento finale anziché l’apostrofo), al secolo Riccardo Morozzi, personaggio mal scritto che appiattisce le capacità drammatiche dell’indimenticabile Jeeg Robot del film di Gabriele Mainetti (2015). Riccardo, dopo aver rischiato la pelle per un proiettile nell’addome durante uno scontro di piazza a inizio anni Ottanta, è incorporato nella combriccola e si distinguerà nella storia come stereotipo del fallimento professionale e familiare. La componente femminile è portata da Gemma (l’unica cui la sceneggiatura non conceda anche un cognome, non si capisce perché oppure si può ipotizzare una voluta spersonalizzazione onomastica del personaggio), interpretata da Micaela Ramazzotti (Incappata in diversi flop dopo il bel La tenerezza, 2017), ex musa ispiratrice di Paolo Virzì e in questa sua prima esperienza sotto la direzione mucciniana chiamata a dar corpo a una sorta di amica di tutti dalla personalità debole che, per certi versi, la declassa a meretrice di truppa. Ultimo, ma non ultimo perché è l’unico a salvarsi dal disastro di una scrittura e di una regia davvero infelici, è Kim Rossi Stuart (due anni fa protagonista dell’interessante Cosa sarà e anche lui alla prima prova – e speriamo ultima - con Muccino) che impersona Paolo Incoronato, il sensibile e colto del gruppo, unico personaggio credibile del film con la sua coerenza e resilienza di fronte alle tante complicazioni della vita.
Il casting propone anche un intervento, involontariamente caricaturale, di Francesco Acquaroli (nel cast del recente Alfredino - Una storia italiana, 2021), costretto a esibirsi con un’improbabile cadenza napoletana nelle vesti del delinquente arricchito e della mucciniana Nicoletta Romanoff (anche nel mediocre thriller Le verità, 2017), pure qui incapace di cavare sangue dalla rapa di un ruolo davvero mal disegnato. In conclusione, faccio molta fatica a consigliare un film deludente, che tuttavia nella sua banalità e frivolezza potrebbe accontentare lo spettatore meno esigente o magari bisognoso di spegnere il cervello per un paio d’ore. Voto 4,6.
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