Regia di Ferzan Özpetek vedi scheda film
Arturo e Alessandro sono una coppia in crisi; all’improvviso si ritrovano i due figli di Annamaria, amica del secondo, da accudire mentre la donna è sottoposta a un intervento chirurgico. L’arrivo nella loro vita dei due bambini sembra rinsaldare l’unione, ma ben presto le cose precipitano, con l’inatteso complicarsi della situazione di Annamaria.
C’è qualcosa di preoccupante nell’inquadratura di chiusura di questo film; c’è qualcosa che lascia pensare che, dopo aver chiesto alla Dea fortuna di tenere per sempre accanto a sé i personaggi del film in quel momento in sua compagnia, Arturo stia compiendo il medesimo rituale nei confronti del pubblico, come se Ozpetek sostanzialmente chiedesse agli spettatori di non abbandonarlo. E come si fa ad abbandonarlo? Da oltre vent’anni fa lo stesso film, nemmeno brutto, ma certo riciclato in quanto a idee e argomenti di fondo: cambiano i dettagli, certo, cambiano i nomi dei personaggi, ma a conti fatti si tratta sempre della medesima storia progressista di diritti civili in un’Italia che, da questo punto di vista, ancora arranca paurosamente. Insomma, lo spettatore di Ozepetek proprio perché è affezionato a quel suo tipo di approccio narrativo non lo abbandonerà mai, anche se dovesse rivedere lo stesso film cento volte; e lunga vita a un regista come questo, che nella sua ripetitività sa comunque sfoggiare una sempre vivida capacità di ‘fare cinema’, cioè di creare atmosfere e affabulare. Scritto dal regista con Silvia Ranfagni e Gianni Romoli, La dea fortuna è un lavoro dalla durata non indifferente – due ore tonde – ma dalla tenuta solida, nel quale non mancano fasi di stanca (il pre-finale, fino alla tragedia di Annamaria) e che tuttavia si struttura su una serie di personaggi sufficientemente rifiniti e con un ritmo mediamente apprezzabile. Stefano Accorsi, Edoardo Leo, l’immancabile Serra Yilmaz e ancora Jasmine Trinca, Filippo Nigro, Barbara Alberti e Andrea Purgatori sono gli interpreti principali; altra costante ozpetekiana è poi la colonna sonora colma di pathos, in questo caso curata da Pasquale Catalano. 4,5/10.
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