Regia di Sedat Kirtan, Kubilay Sarikaya vedi scheda film
Famiglia: condividere tutto, soprattutto la consapevolezza di non avere nulla da dirsi. E intanto fare e disfare, ad un ritmo ossessivo. Espressività estrema, ma inesprimibile. Realtà plastica, ma informe. Questo è lo stare al mondo di chi si è perduto. Di chi non si è mai trovato. E spera, in cuor suo, di non incontrarsi mai.
Insieme. Qualche volta l’unione è caotica. L’inquadratura si fa complessa e convulsa, squassata fra gli artigli grigi del bianco e nero. Perché là dove c’è complicità non si è quasi mai soli. C’è sempre un altro con cui confrontarsi. Fosse anche un vizio, una psicosi, un disagio che ti fa compagnia e costruisce la tua storia. Questo film spezza gli istanti. La sua discontinuità, fatta di un’affannosa raccolta di fallimenti, errori, occasioni perdute, rovescia il senso dell’epopea familiare: le radici comuni non sono lì per perpetuare un valore, un’idea, una tradizione racchiusa in un cognome, perché la stirpe si è sviluppata in un tronco nodoso e contorto, i cui rami non amano puntare al cielo. Quattro fratelli turchi si aggirano in un quartiere berlinese dove la vita è frenetica, in quanto disperata e confusa. C’è chi spaccia, chi gioca d’azzardo e si rovina, chi beve o fuma, chi fugge dal manicomio, chi è uscito dal carcere. Chi non trova un lavoro, come Danyal, e chi non sa fare niente, nemmeno parlare, come Muhammad, disabile sottratto all’assistenza sociale per un eccesso di attaccamento. Quel ragazzone mai cresciuto trascorre i suoi giorni ancorato come un macigno al suolo di una casa che non è intimità, ma solo compressione di sentimenti: una miscela esplosiva che magari, lì per lì, può pure creare un’illusione di calorosa passione. La vicenda non è un racconto, non la si può narrare. Non è nemmeno una cronaca frammentaria, che si possa perlomeno commentare momento per momento. Il dramma è un continuo, impietoso staccare lo sguardo per passare oltre, prima che il significato si compia, prima che ci sia una fine. L’interruzione estemporanea fa saltare persino il confine tra il sogno e la realtà, quell’ultimo, tenue criterio distintivo che, a suo modo, potrebbe essere rivelatore di una presa di posizione, dell’assunzione di una prospettiva. Ma questa non c’è, perché, in questo costante starsi addosso, la lontananza è stata estromessa dalla scena. L’obiettivo partecipa alla morbosa ammucchiata di corpi informi e scomposti, sensazioni soffocate, ricerche spasmodiche dell’inesistente, in cui tutto è già successo, e nulla di ciò che si sente arrivare, effettivamente accade. Muhammad impugna una pistola e spara, ma il colpo sfugge verso un’altra dimensione. Usa l’arma come un giocattolo, e la sua azione elude la realtà, seguendo la stessa traiettoria impazzita ed errabonda della sua (in)coscienza. Le azioni sono una serie di tiri mancati, che forse nemmeno volevano centrare il bersaglio. L’emarginazione si smarrisce nel vuoto, correndo a perdifiato, scappando da ogni possibile meta, per trovare rifugio nel disorientamento. La mente di Muhammad, il suo destino sospeso in cui non si sa quanto sia dovuto all’amore, quanto alla paura e quanto alla inadeguatezza, è il ritratto perfetto di questo concretissimo nonsenso, tanto materiale e comune da non potersi nemmeno avvalere della nobile levità dell’astrazione. Se il surreale fosse un mondo esistente, di carne, soldi e cemento, sarebbe una cosa così. La si trova dietro ogni angolo, non ha né capo né coda, e non si traduce in parole. Ha la lingua intorpidita, il fiato corto, e la bava alla bocca.
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