Regia di Roberto De Feo vedi scheda film
Alla sua seconda regia di un lungometraggio ma alla prima in solitaria, e dopo diversi corti cinematografici, Roberto De Feo, anche autore e co-sceneggiatore della storia, confeziona un film, presentato in anteprima a Locarno, che sarebbe un po riduttivo definire semplicemente un horror, e dedicando al contrario maggiore attenzioni al dramma psicologico e anche ampio spazio al thrilling (non a caso i modelli di ispirazione dichiarati dal regista sono classici moderni come il The Village di Shyamalan e The Others di Amenabar).
The Nest é infatti un film gotico di una volta e che si apre soltanto nel finale all’horror contemporaneo (e che costringe lo spettatore a riconsiderare tutto quanto visto in precedenza in una nuova ottica), e come i film di una volta é soprattutto una pellicola di scrittura, grazie a una sceneggiatura compatta ed efficiente accompagnata da una qualità delle interpretazioni sopra la media del genere, e proponendo la sua più grande forza nell’impianto e nella ricercatezza visiva.
The Nest quindi non è un film dove tutto deve essere inquadrato perfettamente affinché tutto torni ma piuttosto un horror d’atmosfera che, nonostante non sia una vera e propria ghost-story, recupera il gusto per quei classici come Suspance o Gli invasati, ponendo per tutto il film quesiti che solo alla fine troveranno risposta nell’intento, anche coraggioso, di valorizzare soprattutto la messa in scena, a iniziare dalla location principale, ricostruita in una villa in rovina vicino a Torino, splendidamente fotografato e un cast con, come si diceva una volta, le “facce giuste” (Justin Korovkin, Francesca Cavallin, Ginevra Francesconi, Maurizio Lombardi, Valentina Bartolo, Roberto Accornero, Carlo Valli, Gabriele Falsetta) a comporre un microcosmo paranoico e sinistro, ciò che resta di una borghesia colta e vanesia chiusa in se stessa disperatamente alla ricerca di una salvezza e che finisce invece per implodere su se stessa.
E benché gli elementi inquietanti siano comunque espliciti sembrano anche confinati in una zona mista sospesa tra incubo e realtà, mai troppo inafferrabili ma lasciati in parte alla libera interpretazione dello spettatore in un gioco sul significato del nascosto che sembra sempre essere ben oltre a quanto si riesce davvero a vedere.
Un microcosmo fortemente regolarizzato e idealizzato con al suo centro il menomato e ignaro Samuel, una tenuta da preservare grazie alla sicurezza delle sue mura dove potrà vivere (sopravvivere?) in un sistema chiuso (morto?) privo di ogni pericolo proveniente dell’esterno ma anche di una qualsiasi evoluzione personale che non sia controllato dalle imposizioni della madre.
Di contro a questa sicurezza imposta con autoritarismo esiste poi un mondo esterno, a lui precluso e di cui é ignaro, che invece ne pretende lo svezzamento, il raggiungimento della maturità e quindi l’autonomia, in parole povere l’autodeterminazione.
Con l’arrivo di una persona dal mondo di fuori e l’infatuazione verso di lei inizia quindi a immaginare un’esistenza diversa da quella che ha sempre vissuta, cresce in lui il bisogno di evasione (come anche del proibito) e quindi di riuscire a liberarsi da quel cordone ombelicale che lo opprime e di uscire finalmente dai confini della tenuta. A conoscere il Mondo (e di conseguenza anche dei suoi pericoli e dei suoi orrori).
Il concetto di libertà gode proprio di questa duplicità: non esiste libertà che non sia libertà da qualcosa da cui si dipende (o si é dipeso) ma questa adesione, ad esempio a un sistema sociale prestabilito, allo stesso tempo permette abbastanza libertà personale come anche i mezzi necessari a staccarsi autonomamente dal sistema stesso.
Non esiste sistema totalitario che non abbia al suo interno quegli stessi “germi” che porteranno inevitabilmente alla sua caduta (vizio intrinseco)
Ma in questo caso questo valore socio-politico assume anche un aspetto più simbolico, o personale, in riferimento proprio al rapporto biologico tra madre e figlio e quel comportamento di protezione e di controllo morboso della madre di fronte alla rivelazione finale diventa quasi giustificato e/o legittimo.
Sbaragliando completamente le carte.
Ma il film può anche essere inteso (forse) anche come metafora cinematografica, con un certo tipo di cinema, nello specifico di genere horror, e di stampo molto classico, più propenso quindi a creare atmosfere, a costruire tensioni e/o a lavorare maggiormente sulla psicologia dei personaggi, che si barrica dietro ad altissime mura di un’antica magioni per cercare di sopravvivere a un mondo esterno dove ha preso il sopravvento invece un altro tipo di cinema “barra” horror molto più diretto e viscerale, violento e granguignolesco (rappresentato dagli Z-Movie) e quindi maggiormente in grado di attirare l’interesse dei più giovani.
Quindi non sarebbe un caso che siano proprio gli adulti a morire o a rimane bloccati dentro la magione, tra vecchie regole o antichi riti nella speranza che questi riescano a tenerli in vita dal “nuovo” che avanza, mentre sono invece proprio i giovanissimi a voler invece scappare e ad abbracciare (pericolosamente?) un cinema più contemporaneo.
VOTO: 6,5
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