Regia di Jean Rollin vedi scheda film
Jean Rollin, supportato in sceneggiatura da due penne eccezionali, realizza un incantevole melodramma, una tragica storia d'amore estremo. Tra la vita e la morte. I contrari che si attraggono (uomo e donna, luce e tenebra, vita e morte, gioventù e vecchiaia) confluiscono qui nell'intenso rapporto ossimorico, sessuale, attuato in un cimitero.
Durante una passeggiata, una giovane coppia finisce per fare all'amore in un cimitero restando intrappolata, di notte, nel lugubre luogo.
"Morendo, mentre dormiva, avvertì l'esperienza viva in un sogno. Il suo sogno era un'onda, che si arrampicava sulla spiaggia. L'onda che si ritraeva. I tuoi occhi, nei suoi occhi. Le tue labbra, nelle sue labbra. È a te che dedico la fine della vita. A te che piangerai fino a dar voglia di piangere anche a me."
Con questa singolare (e profetica) recita, letta dal protagonista senza nome (Hugues Quester) mentre, ad una festa di matrimonio, fissa la stupenda ragazza (Françoise Pascal) che lo ha stregato, Rollin dà il via ad un poetico, onirico, tenero per quanto romantico ma necessariamente tragico film.
La rosa di ferro, quella che adorna una lapide di cimitero, indica la strada da percorrere, come la stessa malinconica e innamorata ragazza annuncia in una frase premonitrice: "Non temere, i morti sono nostri amici e qui troveremo il nostro cammino. Solo e soltanto qui."
Cioè a dire in un cimitero sterminato, immerso in una folta vegetazione, senza sentieri che non siano tombe, cripte, ossari, avvolti da un pietoso manto di foglie secche.
Il paesaggio onirico sulla spiaggia, in tema con il decadente soggetto, non è solare: un cielo gravoso, opprimente, dalla cupa tonalità cinerea fa da sfondo ad un mare mosso e reso lontano, irreale, pressoché irraggiungibile a causa di un manto di nebbia, che sembra separare il mondo dei vivi da quello dei trapassati. Lo stesso clima autunnale, con colori spenti, fa da cornice al luogo di incontro della coppia: una stazione ferroviaria anch'essa posta sul limitare dei due mondi, il cui treno si prepara per condurre i viandanti in una sola e irreversibile destinazione: Aldilà.
"Pensi che l'anima esca dal corpo dopo la morte? Credi che ci sia altro, dopo la vita?", domanda con convinta certezza, come se l'apostrofo in realtà fosse messo lì più che altro per convincere il ragazzo. Una domanda, per così dire pleonastica, scontata. Che trova imminente replica quando i sensi dei due innamorati, calati a lume di candela in una cripta, trovano soddisfazione nell'accoppiamento.
Un accoppiamento totale, ma compiuto con troppa intraprendenza forse, in un contesto (dis)armonico: tra teschi che osservano, tra ossa che scricchiolano sotto il peso di due corpi giovani, nudi, coinvolti in un amplesso totale. Ed è ancora lei, l'affascinante e sensibile donna (persa sulla via dell'amor folle) a dare indizi su quello che resterà per sempre l'ultimo posto visitato in vita dalla coppia: "Il primo novembre, il mondo dei morti si mischia con quello dei vivi."
La rosa di ferro, film dal sintetico soggetto, figura tra i lavori più compiuti di Rollin. La sceneggiatura è perfetta, probabilmente perché opera di Maurice Lemaître, ispirato a sua volta da Tristan Corbière, e riesce a convogliare nel miglior modo possibile il gusto romantico dell'autore, come sempre (e qui in particolare) in grado di comporre sequenze affascinanti, pittoriche ed estremamente complesse (sublime il movimento rotatorio della macchina con punto di vista dall'alto della cripta, alternato alla circolare evoluzione della ragazza).
Ne La rosa di ferro, con viaggio di sola andata, i due protagonisti decidono di dissacrare un luogo di penosi ricordi, di riposi eterni, di nomi senza più volti, incisi su lapidi e tombe, senza immaginare che la vita è una ruota e che -prima o dopo- quella di chiunque incontra la morte (o viceversa). Le campane, in lontananza, battono i rintocchi della mezzanotte, ed è proprio in quel preciso momento che -sotto un cielo di stelle, alla debole luce lunare, in mezzo a quel che resta degli uomini di un tempo- nei pensieri di una mente provata, nel cuore di una ragazza innamorata, si fa strada una scelta sconvolgente, irrazionale, incomprensibile. La rosa di ferro tiene con lo sguardo fisso sullo schermo, magnetizza l'attenzione, parla, sussurra e grida per immagini più che per parole. I vocalizzi (con tono maschile e femminile) fanno parte della lirica colonna sonora e accompagnano le sequenze finali, al chiaro di Luna, della estatica (bravissima) protagonista, mentre danza in un mondo che non c'è più: quello dei morti. È il miglior Rollin in assoluto, che affronta -una volta tanto- i fantasmi del nostro subconscio, i demoni che albergano in noi. Quelli che non ci permettono più di capire dove è il limite. Se c'è, un limite.
"Voi che conoscete il mondo sotterraneo, rispondetemi per favore. Siete stati imprigionati al cancello, alle loro croci. Non siete la morte. Loro sono la morte. Hanno chiuso la porta del castello di cristallo." (La ragazza innamorata)
"Fu con le mani vuote che mi ritrovai nell’orrido cimitero, dove una livida Luna invernale gettava ombre contorte, e gli alberi nudi si piegavano tristi sull’erba inaridita e gelata e sulle lapidi corrose dal tempo. La chiesa ricoperta di edera puntava sempre il suo dito beffardo verso il cielo ostile, e il vento notturno ululava furioso.” (Howard Phillips Lovecraft)
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