Regia di Woody Allen vedi scheda film
“La vita reale è per chi non sa fare di meglio.”
Poi, ecco che arrivano: quelle “a”, “e”, “h”, “m”, “n”, “o” ed “s”, un poco piegate ed allungate verso sinistra, e quelle “z”, le uniche sbilanciatamente sbilenche in senso opposto, riverse verso destra: tutte quante, assieme alle restanti più “regolari”, incise col bianco sul nero dei titoli di testa (e coda) dei film scritti e diretti da Woody Allen a partire da “Annie Hall”: è il Windsor con grazie del 1905 (Eleisha Pechey, 1831-1902), precisamente del tipo Light Condensed, ed è, per parafrasare il poeta, con un cambio enigmistico, “come non mai lo stare a casa”.
“What I really need is a [Irving] Berlin ballad.”
Il lieto fine conclude (principiandone il nascere) la storia d’amore fra il protagonista (Timothée Chalamet, che alleneggia con precisione) e una ragazza [Selena Gomez (“Spring Breakers”, “In Dubious Battle”, “the Dead Don't Die”, “Only Murders in the Building”), molto brava, in sottrazione, e con tag-line: “La vita reale è per chi non sa fare di meglio.”] che ritorna dal di lui passato sotto un nuovo aspetto, e di loro proprietà è il classico “e vissero per un po’ abbastanza felici e contenti”, ma ecco che così le speranze dello spettatore possono essere riservate a - e riversate verso - un impossibile, più che improbabile, eventuale sèguito (ed ovviamente ciò non accadrà, proprio come mai è accaduto nella filmografia alleniana: riciclo di topoi, sì, certamente, ma sequel veri e propri, nemmeno una volta, nemmanco per sbaglio) dedicato alla co-protagonista, una meravigliosa Elle Fanning (“Babel”, “Somewhere”, “Super 8”, “Twixt”, “the Neon Demon”, “How to Talk to Girls at Parties”, “the Beguiled”, “I Think We're Alone Now”, “Galveston”, “the Great” e il prossimo, riunita alla sorella Dakota, “The Nightingale”, ancora per Mélanie Laurent), bagnata soprattutto di luce, non solo di pioggia (Vittorio Storaro prende i raggi traversi del Sole del tramonto - o uno spot a tot lux che somiglia loro - e glieli butta addosso, come già aveva fatto con Kate Winslet e Juno Temple in "Wonder Wheel", e il Sole, così, trova una volta di più la sua ragion d’essere), e incorniciata all’inizio e alla fine da due battute (e da un’origine tucsoniano-arizonesca) che la delineano come provincialotta ingenua e sciocchina (quella sul Rolex acquistato “da un tizio per strada, per soli 200 dollari!”, e quella su Guglielmo Scuotilancia), quando il realtà il personaggio più stupido e ottuso è proprio il protagonista e in parte io narrante e semi-alter ego di Allen stesso (“Ma sì, è una vincita a poker, non sono soldi veri!”, intendendo “veri” con importanti, significativi, come se non li avesse tolti a qualche idiota padre di famiglia che magari etc…).
“Ti piacerà Soho. Era pieno di creativi. Poi è diventato molto costoso, così i creativi si sono spostati a Tribeca. Ma anche lì è diventato molto costoso e così ora sono a Brooklyn. Tra un po’ torneranno da mamma e papà. […] Non sai che bello essere di nuovo a New York. Se non fosse per te non so se ce la farei a tornare a Yardley.”
“A Rainy Day in New York”, il "ritorno" di Woody Allen (e il suo film - tra i tanti - più “farragine di plutocrati WASP”, nonostante il tentativo di produrne da sé l’antidoto) dal Vecchio Continente alla Grande Mela (dopo che mai l’aveva abbandonata: un pezzo di “Blue Jasmine” e “Café Society” - tra la San Francisco contemporanea e la HollyWood anni ‘30 - e il complessivo di “Wonder Wheel” e “Crisis in Six Scenes”, da Coney Island anni ‘50 alla City anni ‘60-’70), contiene una delle poche continuità di campo-controcampo sbagliate del cinema del regista di “Love and Death”, “Manhattan”, “Stardust Memories”, “Zelig”, “Hannah and Her Sisters”, “Crimes and Misdemeanors”, “Husbands and Wives”, “Deconstructing Harry”, “Anything Else”, “Match Point”, “Whatever Works” e “Irrational Man”, e ovviamente è, in buona parte, colpa di Timothée Chalamet (piuttosto che della montatrice Alisa Lepselter, che lavora sul materiale da “senza prove e buona la prima” di Allen), che nella scena di “seduzione/adescamento” con Kelly Rohrbach prima ride e poi è triste, nello stesso momento, da uno stacco all’altro.
“Non dovrei abbeverarmi così copiosamente.”
Chiudono il cast Liev Schreiber (Roland Pollard: stereotipo realistico), Jude Law (Ted Davidoff: caratterizzazione migliore), Diego Luna (Francisco Vega: consapevole macchietta), Rebecca Hall (moglie di Davidoff), Will Rogers (Hunter, il fratello maggiore del piccolo Gatsby), Annaleigh Ashford (la promessa sposa di Hunter, dalla risata assassina), Suki Waterhouse (la compagna di Vega), Griffin Newman (il regista) e Cherry Jones (la madre del minuscolo Gatsby: un’unica scena importante, ma bellissima: tre minuti di semi-monologo in long take con lento zoom spezzati in tre mini-tronconi).
Menzione a parte per Ben Warheit (Alvin Troller, nomen omen): indimenticabilmente disgustoso e rivoltante, e quindi divertente: provare per credere.
Colonna sonora che si avvale del catalogo del pianista jazz Erroll Garner, con incursioni di Sergei Rachmaninoff, Irving Berlin, Bing Crosby, Conal Fowkes…
“La vita reale è per chi non sa fare di meglio.”
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