Regia di Václav Marhoul vedi scheda film
L’appuntamento del film-scandalo a Venezia 76 è stato confermato con The Painted Bird, Vaclav Marhoul alla regia, viaggio sulla carta dickensiano di un bambino nella storia dell’Europa dell’Est (fra Repubblica Ceca e Polonia) nei primi anni 40 del 900: ça va sans dire, nazisti ovunque. E ça va sans dire, il protagonista è un bambino ebreo. Dei 166 minuti di film almeno 160 sono di troppo: il regista ceco gira il suo terzo film in più di vent’anni accumulando violenze delle più varie e casuali per creare un impianto pietistico e pietoso senza precedenti. È molto divertente passare in rassegna ciò che avviene nel film, fra conigli bruciati, cavalli impiccati, caproni sgozzati, sodomie, accenni di zoofilia, occhi cavati, bottiglie nella vagina e giù giù fino all’omicidio di neonati. Il punto è che divertente non dovrebbe esserlo, ma il film prosegue a un ritmo talmente uguale a se stesso, talmente sfiancante, che è inevitabile alla fine cadere nella tentazione della risata di fronte al ridicolo involontario. Uno spettatore minimamente smaliziato non prova più impressione perché viene desensibilizzato alla violenza, la quale smette di essere riflessione su Potere, Storia e altri massimi sistemi, ma diventa solo pornografia autoreferenziale e quasi contenta della propria ossessività. L’intento era anche interessante, l’iniziazione di un bambino al Male (ma proprio a quello assoluto) che tiene in conto sia nazismo che stregoneria che – ovviamente – religione. L’intento ulteriore altrettanto interessante, cercare di rendere questa iniziazione fondamentalmente un’iniziazione “scopica”, un’apertura dello sguardo sul Male, ripulito da qualsiasi sovrastruttura perché visto dagli occhi di un ingenuo bambino. Quindi portare lo spettatore a vedere una sequela di Mali assoluti cercando di abituarlo, privarlo dei suoi sensi e renderlo freddamente parte della polveriera del buon gusto. Ma il film si dimostra paradossalmente ipocrita, quando mostra ma in parte no, rimuove ciò che è veramente scomodo (la violenza sul bambino, l’atto sessuale pedofilo), lasciando che sia il fuoricampo a parlare nelle fasi più problematiche. Un fuoricampo che non fa impressione, che non provoca malessere, che è un riparo piuttosto che una possibilità di accentuare il dolore. Un fuoricampo ipoocrita, che rende il film tra l’altro molto poco interessante sull’unica cosa di cui avrebbe potuto parlare: la rappresentazione della violenza. Quindi poco possono le citazioni gratuite a Béla Tarr (a sproposito) e a Schindler’s List (nazista sniper all’attacco), il film non ha nulla da offrire, né sul piano estetico (un bianco e nero potremmo dire “sprecato) né sul piano argomentativo-espositivo (nessuna didascalia su eventi o luoghi più specifici – ma questo è il danno minore): resta solo una suggestiva sequenza di due minuti completamente in out of focus, che forse lascia uno spiraglio di luce nelle potenzialità di un film che per il resto non sembra essersi sforzato minimamente per non risultare imbarazzante.
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