Regia di Michael Haneke vedi scheda film
"Il dovere dell'arte è quello di porre domande, non di fornire risposte": parole del tedesco trapiantato a Vienna Michael Haneke, classe 1942, una carriera avviata prima come critico cinematografico e poi, a partire dai primi anni Settanta, proseguita come regista televisivo e teatrale, fino al vero e proprio esordio sul grande schermo nel 1989. Funny Games costituisce il suo quinto lungometraggio (a cui va aggiunto il breve segmento realizzato nel 1995 per Lumière et compagnie) e ne riassume poetica e stile con ardore veemente e cinefila passione: non è un semplice horror, anche se travolge lo spettatore con l'orrore della vicenda. Non è neanche un algido saggio di meta-cinema fine a se stesso (anche se nel meta-cinema ci sguazza dentro dall'inizio alla fine) e men che mai un gioco perverso con lo spettatore-voyeur (e però, seppure sui generis, proprio di un gioco si tratta). Non si gongola nella masturbazione citazionista (eppure i "baubau" sono bianchi come i drughi di Arancia meccanica, le atmosfere angoscianti di Ore disperate riecheggiano in molte sequenze, la canonica struttura drammaturgica del genere, "regolamentata" da Non aprite quella porta, viene sempre seguita pedissequamente nelle sue evoluzioni narrative), perchè l'ispirazione che lo sorregge si preoccupa più di "travolgere" che di "omaggiare". In realtà Haneke sta solo calando le sue carte su un tavolo da gioco: lo spettatore non partecipa al gioco, perchè il "potere" della visione è sconfitto in partenza di fronte alla potenza del processo creativo, potendo soltanto "subirlo". È in questi territori che abita il cuore pulsante di Funny Games: territori in cui lo spettatore è vittima, in cui l'autore dello spettacolo messo in scena per il pubblico srotola su un tappeto rosso (metaforicamente, di sangue...) le sue tesi. Tesi che Haneke compone, lentamente ma inesorabilmente, calando le sue carte sullo schermo e ricomponendole, come tasselli di un mosaico, in un "solitaire" che possiede l'unica aspettativa di "essere esibito". Lo spettatore, per Haneke, ha un altro compito: quello di "leggere" non il mosaico completo ma di osservare ed analizzare i singoli tasselli (è qui l'aggancio al meta-cinema), ovvero la destrutturazione dell'opera filmica (e non a caso Haneke era un critico cinematografico militante cresciuto a pane e Bazin). Per questo non va per il sottile: non ne ha bisogno, anzi, la scelta operata è proprio quella della brutalità, crudele e senza mezze misure, di chi ha fretta (ed entusiasmo) di proporre la propria folle visione al suo pubblico (sì, è "suo" perchè per tutta la durata del film, ed almeno sino alla sua fine, lo ha ridotto in schiavitù imprigionandolo di fronte allo schermo) preoccupandosi esclusivamente di trasfigurare nell'eccesso cinefilo e nell'esasperazione emotiva (tra i tanti corrispettivi storici viene in mente, per analoghe intenzioni di trasfigurazione estremistica, la macchina da presa usata come arma in Lo stato delle cose di Wim Wenders, proprio lui che, guarda caso, interruppe la visione di Funny Games al Festival di Cannes abbandonando la sala, evidente il rigetto di fronte alla schiavitù a cui Haneke lo stava obbligando) le chiavi di lettura più immediate dell'opera, ovvero quelle cifre stilistiche, basate su codici estetici immediatamente identificabili, con cui il regista cattura, con un raggelante ed insostenibile crescendo di disgusto, la pseudo-complicità e l'attenzione dello spettatore, immediatamente preso al laccio dall'incontro di una famigliola altoborghese (padre, madre, figlio e cagnolino in vacanza nella propria villetta in riva a un lago), con due apparentemente candidi giovanotti, che ben presto, con petulante invadenza, iniziano a tormentarli: prima si insediano nella loro abitazione e poi, dopo averli presi in ostaggio "rivelandosi" come due sadici squilibrati, innescano un terrificante gioco del gatto contro il topo con i malcapitati di turno, conducendoli, dopo un'escalation di violenze e torture, fino al completo e atroce martirio conclusivo. E poi via di nuovo, alla ricerca di nuove vittime. Le tesi di Haneke si innestano in questa disperata danza di morte e distruzione con movenze implacabili e straniante rigore espressivo, dall'inutilità di razionalizzare la violenza alla sua rappresentazione e alle sue manifestazioni nello spettacolo moderno, dal ruolo dello sguardo nell'atto di osservare la realtà all'accorata rivendicazione della completa paternità della propria opera da parte dell'autore (opera che, quindi, appartiene allo spettatore solo mentre questi esercita, appunto, la sua funzione di spettatore, non di giudice). In realtà, e Haneke ne è perfettamente consapevole, lo spettatore giudica ugualmente, e per questo il regista è costretto a barare: ecco, quindi, le strizzatine d'occhio degli attori verso la macchina da presa, ecco il tasto "rewind" del telecomando riavvolgere il film e modificarne la realtà dei fatti (riconducendo la trama su quei binari, preannunciati già all'inizio e da cui, abilmente e sottilmente, ci aveva illuso di poter deviare), ecco che gli scarti surreali/iperrealistici della narrazione barano depistando lo sguardo che deve analizzarli, proprio per confonderne i pre-giudizi e sgombrare la mente dalla sensazione del déjà vu (infatti Haneke non ha pretese di originalità o innovazione, nulla di nuovo appare sullo schermo, tutto già visto, appunto...). La sequenza più straordinaria del film, il lungo piano sequenza muto che segue l'omicidio del bambino, ne esemplifica proprio questo aspetto, trasfigurando nel paradosso teorico le meccaniche della visione cinematografica: quale sarebbe stata, infatti, la reazione dello spettatore (e quindi la valutazione del film) se Haneke avesse deciso, ad esempio, di sposare in toto l'estetica visiva dello slasher movie invece che lasciar accadere gli eventi più raccapriccianti sempre fuori campo? Al contrario sceglie, e non a caso, di esibire gli effetti e le conseguenze della violenza sui suoi personaggi piuttosto che mostrarne la reale truculenza, riuscendo ad aggirare, così, il rischio di devitalizzare gli umori più inquietanti che scorrono sotto la pelle del film per sprofondare in una banale (ed inevitabile) apologia del Bene in confronto all'enigmatica ineluttabilità del Male. Certo, ovviamente, non tutto nel film risulta perfettamente a fuoco, dato che il giochino soffre qualche volo troppo alto e gli ingranaggi che lo compongono si inceppano ogni tanto nell'autoindulgenza (mentre all'ipocrisia voyeuristica dello spettatore non viene invece perdonato nulla), ma lo spettacolo, allestito per un pubblico disposto a discutere del proprio ruolo di fronte al testo a cui si accosta, si rivela ugualmente destabilizzante e sorprendente, sempre in bilico tra vitalità e turbamento e magistralmente sorretto da una regia onnipresente ed essenziale anche nelle forzature più paradossali ed inaspettate, incastonate nella smagliante cura formale nella composizione delle inquadrature, nella pseudo-staticità ritmica infusa dal montaggio (a cura di Andreas Prochaska), nella fotografia abbacinante di Jürgen Jürges, fino ad arrivare alla spiazzante colonna sonora, che spazia "candidamente" da Händel, Mozart e Mascagni alle devastazioni hardcore dei Naked City (ovvero la super-band di John Zorn e Bill Frisell). "Vogliamo scommettere che voi, diciamo in dodici ore, sarete tutti e tre morti?".
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