Regia di Michael Haneke vedi scheda film
Non sappiamo se Haneke ha letto Galimberti, ma il suo è un film, senza alcun dubbio, su gli ospiti inquietanti. Non dissimile da quello che il regista austriaco propose già nel 1997, ma bello quanto quello. Anzi, Funny con conferma Haneke grande dispensatore di emozioni, sebbene sadiche e masochiste, al modo di Hitchcock e Kubrick.
Come in un vero e proprio videogioco, da cui è impossibile che i personaggi escano, Funny Games ci fa ‘giocare’ all’interno di una scatola di muri, abbastanza spiazzante e claustrofobica, la casa in cui trascorrono le vacanze al lago un uomo e una donna, borghesi per cultura e gusti, con l’adorabile figlioletto. Tutti e tre cadranno vittime di due balordi, ma bellissimi, biondi, in completo da tennis e guanti bianchi, vestiti all’Arancia meccanica e con comportamenti abbastanza vicini ad alcuni che oggi rinnovano la loro forza, a botte di manganelli e riprese di impronte.
Infatti, il film di Hanede é quanto di più vicino alle nostre pagine di cronaca: giovani di ottime famiglie che, vuoi per “l’infanzia infelice, instabilità sessuale, risentimento di classe, cattiva istruzione” (sono le motivazioni che adduce uno dei balordi), giocano alla violenza, abbastanza gratuita, a botta di uova, mazze da golf, palline, coltello, telefono, fucile, televisore. Fino alla fine, fino al Games over. In mezzo il ‘rumore’ musicale di John Zorn, di contro alla musica sinfonica e lirica dell’inizio del film.
Ma Funny Games è anche una grande lezione di cinema, non di genere, ma sul genere. E’ indagine sulla società dello spettacolo (essenziali, quindi, gli sguardi in camera di Michael Pitt), in cui i complici sono sullo stesso fronte, chi guarda e chi è guardato, chi spara e chi è sparato (“Perchè non ci uccidete subito e la fate finita?” “E che ne sarebbe dello spettacolo?”), chi ammazza e chi permette che l’altro lo faccia. Non è il gioco a cui stanno giocando tutti i governi europei, in rapporto, ognuno con i propri problemi di sicurezza? In tal senso, nella nuova versione della storia, Haneke ci mette un dato essenziale: la lentezza dei movimenti di macchina, per suggerire e fomentare le efferatezze tenute fuori campo e appena accennate con inquadrature inquietanti, come quella con il televisore inguaiato di sangue.
Alla fine, questo film rimane un’opera essenziale per continuare a non capire quanta finzione c’è nella realtà e quanto reale sia la finzione. Praticamente, il cinema.
Giancarlo Visitilli
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