Regia di Cary Fukunaga vedi scheda film
È bastato aggiungere un piccolo dettaglio al personaggio di James Bond per variarne totalmente l’impostazione e, attraverso una serializzazione spinta, inedita per la saga dell’agente 007, ridefinire completamente i contorni di una tradizione decennale per spingere il protagonista, e i relativi capitoli cinematografici, verso una complessità più moderna e partecipata. Dopo il sadismo maschilista di Connery (replicato pallidamente da Dalton) o l’ironia da impenitente dongiovanni di Moore, ereditata da Brosnan assieme a un timido il tentativo di attualizzazione del personaggio, è rifacendosi al quasi dimenticato Al servizio segreto di Sua Maestà con Lazemby che Craig e gli sceneggiatori costruiscono un originale Bond, di cui i 5 film costituiscono una complessa e articolata origin story, in cui il personaggio viene rielaborato, rimesso a nuovo e a nudo palesando una caratteristica in precedenza solo accennata e relegata a quell’unico film del 1969: l’innamoramento.
Per un agente segreto l’amore è una debolezza, e la delusione sofferta da Bond in Casino Royale è una ferita mai rimarginata, nonché il motore sotteso a tutti i 5 capitoli del franchise, sulla quale, non a caso, si apre infatti anche No Time To Die (dopo un incipit apparentemente accessorio e digressivo) con James Bond in visita alla tomba di Vesper Lynd a Matera. Sollecitato da amore e odio, dal bisogno di vendetta e da vani tentativi di fuga, per cinque film James Bond non ha fatto che muoversi tra personaggi tra loro legati, in un viavai di rimandi familiari e di legami veri e putativi, tra padri lontani, fratelli incerti, mogli traditrici, amanti dubbie, madri perdute, con la nuova squadra di sostegno (M, Q, Moneypenny) che si andava costituendo assieme all’identità del protagonista, il quale, ritrovando i propri topoi rinsaldava l’immagine convenuta mentre, contemporaneamente, la sua identità si sfaldava verso un’incertezza dolorosa.
Muovendosi tra ricordi vivi o repressi, tra casali aviti e appartamenti funesti e spogli tutti disabitati, James Bond sembrava vagare, sempre meno al servizio di sua Maestà (già all’inizio del secondo film era “gone rogue”), sempre più impegnato nella ricerca di sé, in fondo costantemente vana. Sollecitato da sentimenti che vorrebbe reprimere e, contemporaneamente, abbracciare appieno, 007 è in questo ultimo film più agito che agente, costretto ad inseguire gli eventi e le persone, a muoversi su un terreno costantemente minato e in continua ridefinizione. La trasformazione del personaggio iconico non avviene tramite confessioni di fluidità sessuale (accennate in Skyfall) o diminuzioni di libido del macho cinematografico per eccellenza (Craig è ben poco seduttore nell’intera serie), né con la concessione dello status di 007 ad un’agente donna o l'affiancamento a Bond Girl che si affrancano dall’immagine di amante patinata o damigella in pericolo (oppure di avversaria frigida), bensì attraverso una “femminilizzazione” del personaggio che passa attraverso la prevalenza e persistenza del sentimento amoroso.
E mai come in questo film Bond appare fragile, quasi marginale alla narrazione che, infatti, parte con un flashback su Madeleine Swann, già coprotagonista di Spectre, in una pellicola che, in fondo, racconta più lei di 007, la rende punto focale e fulcro degli eventi, nonché elemento cardine del colpo di scena finale. Questa dualità di No time to die è evidente sin dalla canzone di testa, cantata con voce soffusa da Billie Eilish su una base che riprende molteplici citazioni da altre Bond song, e il cui testo potrebbe riguardare entrambi i protagonisti di una relazione di coppia travisata dal sospetto, mentre il film si conclude sulla donna che torna a rivisitare i luoghi percorsi in precedenza assieme all’agente segreto.
Ma la perdita di centralità riguarda tutti i protagonisti supposti, non solo il capitale agente segreto, ma anche la sua nemesi, peraltro più legata a Madeleine che a lui, che diventa una figura pressoché secondaria, alla Spectre, pericolosamente tentacolare ma spazzata via in un attimo con un’arma virale e genetica invisibile e intangibile, fatta di nanoparticelle che si impiantano nel corpo minandolo a vita. Di fronte a quest’impotenza generalizzata, che si fa inconsapevole e ironica eco dei tempi, in fondo anche la scelta finale di 007 assume una solida coerenza melodrammatica che getta nuova luce sul personaggio e sulle sue avventure.
Forse un unicuum nella saga sull’agente britannico, che troverà necessariamente una diversa incarnazione nei prossimi film, le cinque pellicole con Craig offrono, nel loro insieme, un approccio del tutto nuovo al personaggio, diventato complesso e dolente, come anche alla regia dei singoli capitoli, sempre più legati, se non a un punto di vista autoriale, manifesto soprattutto nel dittico Skyfall e Spectre firmato da Sam Mendes, ad una solida consapevolezza del mezzo cinematografico, oltre che alla necessaria padronanza di scene d’azione, spettacolari ma ancora fisiche, non del tutto relegate alla post-produzione digitale. Dopo l'esordio con Martin Campbell, alla guida del miglior Bond recente precedente (Goldeneye), e aver tentato la strada di un regista più intimista (Forster, nel capitolo più debole), la produzione ha cercato in Fukunaga, oltre l’efficacia, una certa vena crepuscolare, evidente nel romanticismo torbido e tormentato del primo True Detective (o di Jane Eyre).
Da adesso in poi 007 sarà diverso, oppure, semplicemente, tornerà a essere sé stesso, chiunque esso sia, smarrito nei suoi luoghi comuni o rinforzato dai medesimi cliché della sua lunga ascendenza cinematografica, anche se sarà difficile non prendere in considerazione quest’ultimo articolato capitolo, lungo cinque pellicole, di una storia destinata a ripetersi.
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