Regia di Cary Fukunaga vedi scheda film
Un finale dolce e facile, straniante e sovversivo - per quello che sono/rappresentano canoni e tratti identitari bondiani - chiude l'era di Daniel Craig come 007.
In pensione entrambi.
L'impressione, netta, è che abbiano voluto - "loro", la Spectre di autori e Studios e potentati - squarciare l'outfit firmatissimo e inconfondibile che sin dalla nascita veste il brand: a questo punto potrebbero farne davvero qualsiasi cosa, e non solo in termini di scelta attoriale per la prossima reincarnazione.
Scelta figlia dei tempi, opportunistica, chiaro.
Una coltre di foschia che di fatto condiziona No Time to Die; eppure l'incipit illude: dapprima un flashback teso nelle imbiancate lande norvegesi, seguito da un’assolata, “fantastica” Matera – sospesa tra arcaicità del paesaggio (peraltro abitata banalmente da greggi di pecore, personaggi folcloristici, processioni di santi) e azione irruenta, di esplosioni, sparatorie, inseguimenti – cui fa da contraltare la dimensione di incertezza che circoscrive l’agente con licenza di uccidere accasato, che non riesce a staccarsi dal passato, dalla sua natura, dal dare immediato vo(l)to di tradimento dell’amata a un’operazione (maldestra) atta a eliminarlo.
I titoli di testa accompagnati dalla irritante, mortifera sigla di Billie Eilish spezzano già la magia.
Quanto promesso viene progressivamente infranto da una rappresentazione singhiozzante, sciagurata, tale da trasformare l’avventura di Bond in un epigono sgraziato di Ethan Hunt.
Non è il tentativo, goffo e loffio, di decostruire il mito, il suo innato machismo, a far franare film e immaginario (non lo è certo sbattere 007 in sella a una Lambretta seduto dietro a una donna, suvvia) quanto, piuttosto, il macigno di una sceneggiatura a quattro mani terribile, per come è stata pensata e messa in opera.
La trama – una spy story come tante, peggio di tante – sembra sia stata imbastita unicamente in funzione di altro, tanto tende al ridicolo, all’insignificanza, all’appiattimento di schemi e topoi, fino a divenire elemento del tutto irrilevante; emblema del fallimento è un villain anonimo, insulso (interpretato dall’insulso Rami Malek), di cui lo script si disinteressa di fornire le benché minime coordinate.
Semplicemente, il supercattivo superscemo Lyutsifer Safin (eh?) sta lì, perché lì deve stare, con il suo piano criminale scemo, le sue azioni e motivazioni (?) sceme, la sua età che non torna rispetto a quella di Madeleine, i suoi scagnozzi inutili e assenti sul più bello, i suoi bulbi oculari fuori orbita che fanno sempre scena, la gente scema; e lo stesso vale per qualsiasi altra componente, umana e narrativa.
Oltretutto, sarebbe curioso conoscere il ruolo effettiva della acclamata, pubblicizzatissima Phoebe Waller-Bridge nella writers’ room: si devono a lei i (brevi e moscissimi) siparietti con la nuova 007 Nomi (altra figura marginale e insignificante)? Difficile dirlo. Ma chi se ne frega, dopotutto.
La messa in scena si adegua all’andazzo: quella di Cary Fukunaga è una regia di puro servizio. Non un guizzo (la sola sequenza action degna di nota, con la moto saltellante tra i vicoli materani, sta nel trailer), non una scelta che non sia figlia della missione possibile; e se l’azione è piatta, la rappresentazione frammentaria, la tenuta priva di coesione, la tensione latitante, la sfilata di personaggi secondari inconsistente, superflua, flaccida (e vale sia per gli storici alleati che per gli altri, compreso il cameo sprecato di Christoph Waltz), non resta che assistere inerti, finanche indifferenti, svogliati a ciò che passa il grande schermo.
Peccato per il breve ma riuscito intermezzo cubano, complice una Bond girl moderna che ha le fattezze di una divina Ana de Armas armata di una verve e una presenza scenica che non ha riscontro nel resto di No Time to Die.
Si torna, quindi, costretti, alla destrutturazione di James Bond, alla sua fine (letteralmente): l’introspezione operata sul suo personaggio nel corso del film, per svelarne la dimensione umana, e nuovi probabili scenari futuri, passa dal rapporto con l’amata Madeleine e sorprese annesse.
E ci sta: chi si scandalizza, davvero, oggi?
Il problema risiede nel “come” ci si arriva (l’elemento di tenerezzitudine, la scelta che segna il suo destino, l’assoluta subordinazione delle componenti narrative, ludiche, fondative del genere e del marchio, la metaforina ripetuta e risaputa sul guardarsi indietro), nell’idea stessa che basta esibire un Bond genericamente, semplicisticamente “romantico” (familistico) per cambiare pelle, per dare forma a un nuovo 007.
Da licenza di uccidere a licenza di ammorbare.
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