Regia di Andreas Horvath vedi scheda film
Un ritorno alle origini, di una campionessa dello sradicamento e dell'alienazione scandito dall'impassibile metronomo delle lunazioni, nel cammino retrogrado di una migrazione umana che dopo alcune decine di migliaia di anni ripercorre piste ormai cancellate dal tempo, fino al mito di una comunione con la natura ormai irrimediabilmente perduto.
Alla scadenza del permesso di soggiorno e delle sua chances lavorative nel cinema hardcore, la bella Lillian parte per un lungo viaggio a piedi da New York fino all'estremità più occidentale del continente nordamericano col proposito di raggiungere la natia Russia attraverso lo stretto di Bering. La sua implacabile odissea sotto il cielo d'America sarà costellata da bivacchi di fortuna, mezzi di sussistenza raccattati per strada e gli imprevesti che la natura selvaggia ed i rari contatti umani le porranno di fronte, in un solitario viaggio ai confini di un mondo cui ha deciso di voltare definitivamente le spalle.
Le voyage au bout...du monde
Tenendo fede ai suoi esordi fotografici che inquadravano i gelidi paesaggi siberiani o le desolate lande di un'America rurale sospesa nel tempo, il documentarista austriaco Andreas Horvath esordisce nel lungo di finzione alla maniera del teutonico Wenders, con uno sguardo di lucido disincanto sociologico e di sibilline suggestioni antropologiche che attraversa in lungo e in largo la sterminata varietà del continente nordamericano, costeggiandone le molteplici periferie e le incontaminate oasi di una natura impenetrabile alla scoperta di un mondo dove le innovazioni tecnologiche (simboleggiate dalla iniziale skyline metallica e scintillante della Grande Mela) e l'indolente operosità delle sue numerose comunità non sembra averne alterato il millenario rapporto con l'impassibile ciclo delle stagioni e le imprevedibili intemperanze del clima. Partendo dalla vicenda biografica, assurta al rango di moderna mitologia femminista, dell'emigrata polacca (?) Lillian Alling che fece lo stesso tragitto negli anni '20 del secolo scorso, le voyage au bout de la nuit della misteriosa e laconica Lillian (la performer polacca Patrycja Planik) origina dal luogo di approdo dell'emigrante Ferdinand alla scoperta del volto alienante (e degradante) del capitalismo occidentale per inoltrarsi lungo i percorsi marginali e desolati che dagli stati che costeggiano i grandi laghi si avventurano appena a nord della Oregon Trail per dirigersi decisamente a nord lungo la smarrita via dell'oro della Telegraph Trail e di qui su su fino al gelido ed inospitale tetto del mondo. Se l'approccio da docufiction di Horvath (sotto l'egida non a caso del connazionale Seidl) segue il misterioso camino di una viaggiatrice silenziosa (le uniche sporadiche voci sono quelle dei rari contatti umani, dei gracchianti dialoghi di radio locali e dei turisti incontrati per strada) alla scoperta di un entroterra rurale sonnacchioso e indifferente, fatto di comunità che preservano i consueti riti di una vicenda storica ancora troppo giovane o di una lugubre tradizione locale di assassini seriali, cold case e ratti delle highways (of tears), è il senso quasi mistico del progressivo allontanarsi dal mondo, lontano da Dio e dagli uomini, di questa bellissima extraterrestre il significato più profondo di questo misterioso e affascinante oggetto cinematografico; l'ostinata e testarda indipendenza di chi ha deciso di non scendere più a patti con gli altri, prendere quello che può senza dovere dare nulla in cambio e trascinarsi verso la meta (qualunque essa sia) fino alla salvezza od alla perdizione. Un ritorno alle origini, alle proprie radici, di una campionessa dello sradicamento e dell'alienazione scandito dall'impassibile metronomo delle lunazioni, nel cammino retrogrado di una migrazione umana che dopo alcune decine di migliaia di anni ripercorre piste ormai cancellate dal tempo, fino ad un ritorno al mito di una comunione con la natura che parla dell'ancestrale unione tra uomini e balene e della mattanza cui queste sono destinate dalla comunità degli uomini da cui provengono.
Seconda trasposizione cinematografica dopo quella della regista polacca (pure lei) Liliane de Kermadec (scomparsa nel febbraio scorso) nel più filologico e sconosciuto La Piste du télégraphe (1994), dedicata alla memoria di Lillian Alling, il film di Howarth è stato proiettato nella sezione Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes 2019 e nominato per la Camera d'Or.
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