Regia di Jukka-Pekka Valkeapää vedi scheda film
Certo che questo J.-P. Valkeapää sa essere strano un bel po’... Ricordo di aver incrociato il suo precedente “They Have Escaped” e di essere rimasto altamente perplesso, seppur non entusiasta: quel film del 2014 si reggeva tutto su una scena bucolica di quattro, cinque minuti nel cuore della storia, una scena meravigliosa, surreale, in cui i due giovani protagonisti fuggitivi si rincorrevano nudi, coperti solo di pelli di animali come in un Eden acido e maledetto (scena da cui trae fonte la locandina), e che per il resto trovai essere poco incisivo nella prima parte e troppo, assurdamente violento in ciò che veniva dopo la scena spartiacque
.
Con poca convinzione, ma con sincera curiosità, ho dunque guardato questo “Dogs Don’t Wear Pants” e devo dire che questa volta il regista mi ha convinto appieno. La storia è, nella sua trama, di facile descrizione: Jhua (Pekka Strang), cardiochirurgo, vedovo dopo il tragico incidente d’acqua che ha tolto per sempre il respiro alla moglie, vive con la figlia adolescente una vita routinaria. A cambiargli la vita è l’incontro con Mona, dark-lady ufficialmente fisioterapista e “Mistress” sado-maso, oltre che di secondo mestiere, anche e soprattutto nell’anima. Presto, insieme alla sua padrona, Jhua scopre che il suo feticcio preferito consiste nel voler essere soffocato, strangolato (con chiaro riferimento al trauma subìto nel tentativo di salvare la moglie dall’annegamento), atto che rappresenta sempre il climax dei loro incontri. Il dottore rimane intrappolato dalla sua perversione, lasciandosi andare ad un desiderio malato di incontrarsi continuamente con Mona, tanto da esserne respinto a causa delle esagerate insistenze di costui. Ma arriverà il momento in cui la stessa Mona rimarrà emozionalmente coinvolta dal suo “cagnolino ubbidiente”, e la relazione che lega i due personaggi si trasformerà progressivamente da professionale a personale.
E direi, oltre che personale, anche molto umana. Ed è qui che il film mi pare sia molto riuscito: con una pazienza ed una ostinazione ammantate di violenza, di crudeltà gratuita (benchè a pagamento, ovvio), di autolesionismo e caduta vertiginosa nel baratro della perversione, Jhua non molla mai, e tenacemente si accanisce a ricercare nel fondo della sua mente la soluzione a quel desiderio insopprimibile di soffocare. Anche Mona dovrà liberarsi di qualche cosa, e trovare lei stessa un senso, una ragione del suo essere così depravata, in un percorso che non aveva certo intenzione di intraprendere, adagiata nella sua professionalità ricca di introiti e di soddisfazioni, prima di incontrare l’altro.
Paradossalmente, potrebbe essere una storia d’amore: senza voler spoilerare, la scena finale in discoteca, bellissima, con quegli sguardi fra i due che si chiamano e si cercano reciprocamente, fa sinceramente pensare a qualcosa di romantico. E saper condire di romanticismo (anzi: dare il tocco finale, quello che cambia tutto il sapore del piatto) una storia così nera, sanguinante e sanguigna, così dolorosa e truce, è il segno del talento di questo interessante regista finlandese. Oltre al fatto, bisogna aggiungere, che tutta l’opera si avvale di una regia e di una fotografia davvero importante, ricercatissima, sofisticata all’estremo. A tratti mi è parso di ritrovare i primi Lars Von Trier (regista che è stato un mio idolo, ma che ha perso via via tutta la sua grinta giovanile...), in versione millenium, una violenza diventata nobile e aristocratica dopo quella ruvida e “popolare” di Von Trier del secolo scorso.
Non fatevi ingannare dalle locandine e dai trailer tutte borchie, guinzagli e spuntoni, dai trucchi pesanti e dall’apparenza pornografica o voyeristica: è un ottimo film.
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