Regia di Lav Diaz vedi scheda film
Filippine, 2034. La violenta eruzione di un vulcano ha oscurato completamente la luce del Sole e una strana epidemia ha sterminato più di metà della popolazione e ha comportato la perdita di memoria dell’altra. Lo schizofrenico dittatore Nirvano Navarra governa caligolescamente una nazione completamente militarizzata, convinto che il nemico comunista vada totalmente sterminato. Il giovane Ramirez, che ha perso la famiglia a causa dell’epidemia suddetta (denominata Dark Killer), è parte attiva di un gruppo di ribelli impegnati nel pianificare un’insurrezione; invece la prostituita Model 37, che ha perso la memoria come molti altri dopo la diffusione dell’epidemia, cerca di riscoprire chi fosse nella sua vita precedente grazie all’aiuto della dottoressa Jean, autrice tra l’altro del libro “A Nation Without Memory”, così da liberarsi di una condizione mentale che la costringe a comportarsi come un androide. Intanto la generalessa Marissa, a capo dell’Intelligence delle Forze Speciali sotto Navarra, si innamora di Model 37...
L’intricata trama dell’ultimo film di Lav Diaz è, come di consueto, la conseguenza della necessità del regista filippino di raccontare una nazione distrutta tramite una coralità di individui direttamente influenzati da eventi disastrosi di portata collettiva - dalla dittatura di Marcos in svariati suoi film precedenti all’alluvione di ‘Death in the Land of Encantos’ - non rivolgendosi più soltanto al presente ma anche al passato - si pensi a ‘From What Is Before’ - e al futuro, come nel caso di ‘The Halt’. Il futuro di Lav Diaz è fatto di interni asfissianti ed esterni completamente disastrati, praticamente privi di geografia e percorsi in lungo e in largo da droni squittanti e invadenti, a cui mostrare un tesserino se ti si fermano davanti. La regia di Diaz è molto rigorosa, fatta al solito di camere immobili e di inquadrature quasi fotografiche - ma che perdono il loro carattere intrinsecamente fotografico grazie alla presenza dello stacco di montaggio, che dopo un pianosequenza più o meno lungo sembra dare inizio a un’altra storia. In ‘The Halt’ si contano solo due sequenze a camera a mano, analoghe a quelle oniriche di ‘Florentina Hubaldo CTE’ ma stavolta non oniriche ma possibili soggettive dei droni svolazzanti. Però il ritmo è decisamente più rapido degli altri film del regista, tanto che le 4 ore e 40 trascorrono velocemente fra dialoghi intricati e sequenze addirittura “montate” in senso classico. Certo, mai campo/controcampo, ma cut in continuità, come nella bellissima sequenza del concerto. Per quanto sia indice di una maggiore voglia di dialogare in modo più diretto con lo spettatore magari meno abituato, questo nuovo ritmo delle cose è anche sintomo di un’urgenza di dire tante tante cose su un paese ben oltre il baratro della follia. Emblematico in tal senso il segmento dedicato al dittatore, in cui i vertici del grottesco raggiungono vette mai neanche sfiorate dal regista filippino, e si ride pur sempre a denti stretti delle bizzarrie di un governatore psicopatico che cita Rilke fuori contesto ed è incapace di intendere e di volere. Il segmento di Model 37 percorre invece più le tracce solcate da ‘Florentina Hubaldo CTE’, anche se questa volta a un certo punto “capovolte”, come nella scena in cui lei e Jean si girano verso il fuoricampo - cioè verso la camera, verso il pubblico della sala - e pronunciano una frase di mesto compatimento.
Se dunque i ritmi si fanno più rapidi, intenti a raccontare riflessioni psicologiche, risvolti a sorpresa (la trasformazione di Marissa) e complotti rivoluzionari, le atmosfere si fanno più “chiuse” e intime rispetto alle “anti-narrazioni” epiche degli ultimi film di Diaz, come a tornare alla semi-amatorialità di ‘Melancholia’, con cui il film condivide le riflessioni sulla perdita di identità delle persone sottomesse a un regime totalitario e i tentativi più intellettuali dei ribelli di resistere a uno status quo insostenibile e miserabile.
Anche se esagerare coi dialoghi porta Diaz a sfiorare il naif in più punti, con frasi declamatorie puramente ripetitive, in compenso ‘The Halt’ ritrova un entusiasmo più semplice e candido per la ricostruzione di un ritmo del racconto tramite immagini più grezze ma sempre eleganti, e dunque una maggiore “materialità” della regia che ci fa sentire molto vicini al regista dopo la distanza imposta dal deludente ‘Season of the Devil’. Anche quando per un semplice non fastidioso errore vediamo la sua figura deformata e allungata intenta a riprendere la scena, riflessa involontariamente sulla superficie di una bottiglia di Merlot.
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