Regia di Vincent Gallo vedi scheda film
American Way Of Life
Nel 1966 i Buffalo vinsero il loro ultimo campionato. Lo stesso anno nacque Billy Brown, ragazzino allergico al cioccolato e succube di un padre cantante ed orgoglioso e di una madre dai gusti sportivi straordinariamente mascolini. Un destino ineluttabile e inevitabile, quello del protagonista del mitico Buffalo ’66, che scandaglia con piglio disincantato le miserie e le storture di un’America fatta di strade, di macchine, di case grigie e buie, di motel e di sentimenti contrastanti all’insegna della solitudine. Neanche il fato riesce a metterci il suo zampino, perché nello scostante cupio dissolvi del protagonista il libero arbitrio e il mascheramento dei propri sentimenti più profondi e sinceri diventano motore di un comportamento mai davvero prevedibile ma capriccioso come quello di un bambino mai cresciuto. Vincent Gallo si rivela a momenti un vero Autore solo dalla prima mezz’ora di questo suo film tenero e dalla componente paradossale sempre attiva e squillante: uscito di prigione, Billy deve disperatamente cercare un bagno dove urinare. E questa ricerca diventa il primo stimolo demenziale verso l’incontro con Layla, misteriosa ragazza bionda, minuta e anche molto carina, disposta a tutto pur di accontentare questo sconosciuto che le chiede, con ostentata arroganza, di fare la parte di sua moglie di fronte ai genitori inconsapevoli, probabilmente, della tormentata storia del figlio. Alla ricerca della situazione grottesca e surreale, i due protagonisti sembrano trovare un punto di contatto, silenzioso e strisciante, così com’è sottile e variegato il modo in cui la trama si dipana nelle attraenti due ore del film: immanentemente il tono della pellicola è sempre uguale, il grigiore dei bar e delle strade e qualche effetto speciale per spiegare allo spettatore i ricordi del protagonista. Interessante, in questo senso, l’inizio del film, in cui alla figura di Gallo desolata e seduta su una panchina fuori dalla prigione si sovrappongono moltissime “finestre” che mostrano probabilmente vari aspetti della sua esistenza precedente, quella che ci si appresta a raccontare e, soprattutto, ad evocare.
È il finale del film, anzi, il doppio finale, invece, a espletare anche in termini estetici l’originalità profonda del film di Gallo. Le istantanee di una piccola esplosione di violenza, che poi si caricano delle scelte e delle decisioni arbitrarie del protagonista, sono la messa in scena di uno stile davvero vispo e accattivante, l’esternarsi di quei motori che sottopelle muovono i personaggi e permettono allo spettatore un contatto empatico che prima, come con qualunque sconosciuto di ogni giorno, passa dalla diffidenza. Il coinvolgimento da parte dello spettatore nei confronti di Buffalo ’66 funziona come quando ci si presenta per la prima volta a una persona: prima è necessario ascoltarsi se veramente può oltrepassarsi l’iniziale indifferenza e dare la propria fiducia. E Buffalo ’66 cattura l’interesse dello spettatore in tutto e per tutto, anche nel suo ritmo desolato e desolante. Ma lo fa nella maniera più curiosa: straniando. Se veramente nei confronti di Buffalo ’66 ci si pone in termini prettamente umani, così sembra non essere fra i due protagonisti, e in particolare nei confronti del personaggio di Layla (Christina Ricci) le reazioni dello spettatore sono le più perplesse e stravolgenti. Layla rinuncia a una sua identità che mai ci viene rivelata per sottostare alla volontà del suo nuovo uomo, conosciuto per di più nella maniera più infastidente e brutale (un’aggressione, accentuata dal bisogno di urinare del protagonista, e seguita da una presa in ostaggio presto consentita dalla stessa vittima, come sotto l’effetto distintivo di una sindrome di Stoccolma). Nonostante non sappiamo nulla del passato di Layla (diversamente dal gradualmente noto passato di Billy), e il suo comportamento sia invece sempre uguale (gioiosa accondiscendenza), il suo personaggio fa battere il cuore con i suoi sussulti, la sua veemente energia, il suo bambinesco incedere esistenziale, come quando durante una partita di bowling di Billy lei comincia a ballare, per la prima e unica volta rinchiusa in se stessa e non nell’universo dell'uomo. Forse è anche questo che Gallo vuole spiegare: l’unico possibile vero rapporto d’amore nasce dall’annullamento del sé, dalla negazione delle proprie convenzioni, da un abbandono di se stessi che non richiede nostalgia e neanche la minima esitazione. Ed è anche questo che spinge Billy a prendere le sue decisioni, alla fine del film, che esplode nella gioiosa libertà del Cinema “non-necessariamente-pessimistico”. Il suo passato non gli genererà alcun tipo di dolore, con questa nuova vita, benché la sua rinuncia sia scostante (al suo amico Tonto/Rocky la combinazione del proprio armadietto non la lascia più). Cosicché, pur nella conclusione positiva, il film non è riducibile a schematizzazioni caratteriali.
Dunque, immerso nello stile di vita americano, Gallo analizza i rapporti umani e come di fronte ad essi si debba porre il singolo con tutta la sua caterva di problemi. Con un risultato spiazzante che intenerisce, si muove sotto l’estetica per (non) capire i suoi personaggi, ritrae esistenze corrotte dall’incomunicabilità per trovare nell’originalità dell’assurdo una fonte di discontinuità contro la grottesca stasi emotiva dell’uggiosa periferia statunitense. Unico.
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