Regia di Maryam Touzani vedi scheda film
La lunga, tormentata notte che Samia trascorre col suo figlioletto è la perfetta sintesi della singola coscienza umana tout court, ma quella porta che si chiude nell’ultima inquadratura senza indugiare oltre è la necessità dolorosa di concludere una vicenda che narra di un dramma sociale, prima ancora che personale
Samia, giovane ragazza marocchina in fuga dal suo villaggio in quanto rimasta incinta senza avere un marito, cerca riparo ed aiuto nella parte vecchia di Casablanca. Il suo intento è quello di cavarsela in qualche modo (uno qualunque: si offre bussando ad ogni porta offrendo a tutti i propri servizi purché sia) fino al momento di dare alla luce il suo bambino, darlo in adozione, e ritornarsene a casa per cominciare una nuova vita.
La sola porta che le si apre è quella di Abla, madre di Warda, una vivace bambina di dieci anni che entra subito in empatia con la fuggiasca. Abla ha volutamente interrotto e tagliato tutto della sua essenza emotiva il giorno in cui è rimasta vedova, e lavora in casa ormai solo meccanicamente, producendo e vendendo pane e dolcetti, ignorando la corte del baffuto mugnaio che con discrezione desidererebbe prenderla in moglie, così come ignora ogni altra relazione con mondo esterno.
E’ infatti la finestra che dalla cucina direttamente si apre sulla strada per ricevere i clienti, l’unico ponte che Maryam Touzani lascia transitabile tra la società intera e la vicenda delle due donne (tre con la piccola Warda), sulle quale la regista si concentra con encomiabile accanimento (come da sua intervista col pubblico al Festival di Toronto) sforzandosi di tenere sempre “la giusta distanza” evitando i primi piani, nel tentativo di mettere a giusto fuoco piuttosto la pelle, e l’anima che per una volta non sta negli occhi specchianti, ma appunto dietro la pelle, dietro il pancione teso ed oliato di Samia, dietro le mani di Abla che impastano con sofferenza e senza più speranze od entusiasmi, dietro dei “corpi interi” che, all’apparenza pietrificati, nascondo invece una grande voglia di comunicare, di aiutarsi e di vivere .
E la scelta della Touzany di restare comunque e sempre per tutto il film su una sola delle due sponde che il ponte collega (quella “dentro”, dentro casa e dentro se stessi) è il raffinato modo con cui, per sottrazione, la regista punta il dito sulla vera questione: in Marocco (spiega la regista) fina al 2004 un bambino nato fuori da una relazione matrimoniale non aveva diritto non solo ad avere riconosciuto uno “status” sociale, ma non aveva diritto nemmeno ad avere un nome. Da qui, mi pare di intuire, la scelta del titolo, quell’Adamo che è stato il primo uomo per tutte e tre le religioni monoteistiche principali (cristiana, ebrea, musulmana), e che senza mezzi termini la Touzany dichiara di voler lanciare come provocazione nel dibattito politico del suo paese di origine sperando che possa aiutare ad innescare l’inizio di una svolta davvero moderna.
La lunga, tormentata notte che Samia trascorre col suo figlioletto, quell’ultima struggente mezz’ora del film è dunque la perfetta sintesi della coscienza umana tout court, e quella porta che si chiude nell’inquadratura finale senza indugiare oltre con determinata discrezione è la necessità dolorosa di concludere una vicenda che narra di un dramma sociale, prima ancora che personale.
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