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Il sindaco del rione Sanità

Regia di Mario Martone vedi scheda film

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La recensione su Il sindaco del rione Sanità

di Peppe Comune
8 stelle

Periferia di Napoli. ‘O Nait (Armando De Giulio) e ‘O Palummiello (Ralph P.) ingaggiano uno scontro a fuoco che si conclude con il ferimento ad una gamba del primo. Per risolvere al meglio la questione devono rivolgersi all’autorità di Antonio Barracano (Francesco Di Leva), il Sindaco del Rione Sanità. Questi vive insieme alla famiglia e ai suoi più stretti collaboratori in una villa sotto le pendici del Vesuvio. All’ arrivo dei due malavitosi la famiglia Barracano è alle prese con lo spavento accorso ad Armida (Daniela Ioia), la moglie del Sindaco, morsa da uno dei cani della casa. Nella villa di Barracano, ogni giorno si presentano molte persone per chiedere consigli o risolvere spinose faide familiari. Suo amico e consigliere è Fabio Della Ragione (Roberto De Francesco), un dottore che ha organizzato una sala operatoria nella villa per risolvere all’interno dell’organizzazione criminale le questioni di sangue. Il suo desiderio è quello di andarsene in America, lontano dalla violenza che aumenta ogni giorno di più, ma Antonio Barracano ha bisogno di lui, anche per la parvenza di “legalità” che sua presenza riesce a garantire. L’autorità di Antonio Barracano è riconosciuta da chiunque perché il suo modo di amministrare la "giustizia" è da tutti vista di buon grado. Ma questa accettazione silente del suo sistema legalitario, entra in crisi quando si scontra con Arturo Santanieloo (Massimiliano Gallo), un ricco panettiere napoletano che ha letteralmente diseredato il figlio Rafiluccio (Salvatore Presutto). Il ragazzo si presenta dal Sindaco per chiedergli protezione e per comunicargli la decisione "irreversibile" di uccidere il padre. Barracano non può non intervenire e convoca Arturo Santaniello per sentire le sue ragioni. Non è ammissibile che un figlio concepisca l’uccisione del padre. Ne vale la sacralità di ruoli sociali regolarizzati da un codice d’onore da rispettare.

 

Francesco Di Leva, Roberto De Francesco

Il sindaco del rione Sanità (2019): Francesco Di Leva, Roberto De Francesco

   

Con “Il sindaco del rione Sanità”, Mario Martone porta al cinema l’adattamento fatto già per il teatro (insieme agli artisti del collettivo NEST di San Giovanni a Teduccio) dell’opera omonima di Eduardo De Filippo (del 1960). Rifare Eduardo non è mai una cosa semplice, significa doversi misurare con l’arte di sublimare sulle tavole di un palcoscenico il complesso mestiere di vivere, utilizzare dei caratteri archetipi per dare un valore universale a particolari spaccati di vita. Martone ci riesce conservando l’originaria impronta teatrale, mantenuta senza sacrificare troppo la forma cinema. I primi cinque minuti del film esprimono un dinamismo delle immagini tipicamente cinematografico. Poi, da quando ‘O Nait e ‘O Pallummiello arrivano alla residenza di Antonio Barracano sotto le pendici del Vesuvio, la parola e i corpi si impossessano completamente della scena. Si riflette sull’etica criminale lasciando che il rapporto speculare tra il Sindaco e il Dottore ne rappresenti una sorta di canto funebre destinato a lasciare solo eredi illegittimi.

Mario Martone si muove nel solco poetico tracciato da Eduardo, ma usa in cinema per prosciugare a monte l’estetica “gomorriana”. Non certo per un mero spirito di contraddizione verso un cinema che (purtroppo) rispecchia lo spirito dei tempi, iscritto nelle coordinate sociali che producono devianza sociale, nei modelli culturali che si legano all’educazione criminale dei ragazzi di strada, privati di un alternativo bagaglio di valori da opporre come antidoto credibile. La camorra è un dato di fatto oggettivo ed il cinema, in quanto arte che si preoccupa di rimanere connessa con lo stato delle cose, non può non occuparsene. Si può parlare però dello stile utilizzato per descrivere il milieu camorrista, della ricerca di una messinscena più asciutta, più aderente alla profondità “antropologica” del fenomeno, epurata, cioè, di ogni eccesso superfluo. Martone tenta questa strada svincolando la narrazione “criminogena” dall’univocità di comportamenti e di voci gergali che sembrano aver preso nettamente il sopravvento rispetto ad altre forme di analisi. Si prosciuga della sua sostanza accattivante una certa estetica criminale, ormai abusata, fosse solo perchè ha finito per assumere il carattere di un brand commerciale immediatamente riconoscibile, usato più perché rappresenta una ricetta di sicuro appel mediatico, che per la sua effettiva aderenza all’etnologia dei luoghi. Che sono molto più complessi e sfaccettati di quelli che sembrano da una visione omologante e, spesso, gratuitamente spettacolarizzata.

Antonio Barracano è l’incarnazione di un cancro sociale che cerca nella convivenza degli opposti la ricetta più adatta alla sua natura criminale per garantirsi la sopravvivenza. Una pacificazione che deve poter avere l’Antoni Barracano di turno come suo unico reggitore, un sovrano riconosciuto per la sua capacità di saper comminare punizioni e risolvere dissapori, di elargire riparazioni per i torti subiti e biasimo per quelli commessi. La sua giustizia diventa quella generalmente accettata, perché è a essa che ognuno guarda per continuare a praticare il malaffare nel rispetto delle regole comandate. Sta qui l’attualità del “sistema” Antonio Barracano, nel suo ergersi a demiurgo autorevole laddove manca una riconosciuta autorità della legge, nel suo rappresentare quella zona grigia che è il campo ormai deputato per far pratica delle acquisite facoltà camaleontiche dei “quadri” del malaffare. Un campo dove il sempre più labile confine tra il lecito e l’illecito è determinato dall’esercizio incruento e normalizzato del potere criminale. Lasciando che a conservarsi nel tempo sia un sistema culturale retto sul rapporto funzionale tra chi distribuisce favori con ostentata benevolenza e chi li riceve concedendogli in cambio una fedeltà incondizionata. A mio avviso, Mario Martone è stato bravo a saper attualizzare ciò che Eduardo aveva profetizzato più di cinquant’anni fa attraverso la sua opera : per gli affari criminali, piuttosto che praticare il male per il male, può risultare più conveniente predicare il bene per meglio conservarsi in eterno. È in questa osmosi in fieri che si pone la figura fondamentale del dottor Fabio Della Ragione. Un figlio dell’alta borghesia cittadina trasformato nel più ascoltato consigliore di Barracano. L’uomo abilitato a vestire di liceità giustizialista il libero arbitrio del Sindaco, a dare una parvenza di doverosa abnegazione professionale al fatto di dover cucire ferite e rattoppare corpi sventrati, coprire accoltellamenti e camuffare scontri a fuoco. Della Ragione rappresenta il riflesso della coscienza meditabonda di Antonio Barracano, lo specchio in cui prendono forma i sui fantasmi interiori. Una presenza sempre discreta, colta e raffinata, estranea ai continui spargimenti di sangue, ma pienamento dentro il sistema per il semplice fatto di mettere la sua onorabilità professionale al servizio dell’omertosa mistificazione della verità. Con un legame con il Sindaco che oscilla tra la gratitudine all’uomo, che gli ha offerto rispetto e un ruolo di comando, e il rancore per il Sindaco, che ha soffocato il suo desiderio di fuga tenendolo rinchiuso in una prigione dorata.

Barracano e Della Ragione sono Francesco Di Leva e Roberto De Francesco (unico attore del film non presente nella versione teatrale) in due superbe interpretazioni, due attori che si rimbalzano il ruolo del più bravo fino all’ultima scena. L’uno, dando voce all’autorità di Barracano, che cerca di assorbire i tanti piccoli egoismi in un’unica volontà decisionale, di richiamarsi al rispetto "sacrale" dei (suoi) ruoli sociali per evitare inutili faide fratricide. L’altro, dando il corpo ad una complessa ed ambigua elaborazione di un lutto : quello che conduce alla fatalistica accettazione della realtà criminale passando per il sacrificio di ogni speranza di poterla cambiare.

Mario Martone usa questa due figure emblematiche allo stesso modo di come fece Eduardo. Ma, diversamente dal maestro, rende visibile al cinema cose diverse rispetto alle scelte adottate per il teatro da Eduardo. Nell’opera teatrale, il ferimento di Barracano ad opera di Arturo Santaniello non viene fatto vedere, mentre quello che non viene mostrato nel film è il monologo bellissimo che il Dottore pronuncia davanti al corpo sanguinante del Sindaco. La dialettica tra campo e fuori campo corre lungo i circa sessant’anni di distanza per fornire una connotazione diversa allo stesso significato “profetico” dell’opera eduardiana : il crimine non conosce redenzione, e le voci di dentro che reclamano sempre più spazio non possono bastare e fornirgliela. Nel film, lo scontro sanguinoso tra Arturo Santaniello e Antonio Barracano, è servito per mettere in risalto il sacrificio nobile ma inutile del Sindaco, che anche se in cuor suo non crede che “servirà a fermare inutili spargimenti di sangue”, non può più esimersi dal doverlo credere. A teatro, invece,questa cosa è resa con una forza prorompente attraverso le solenni parole del Dottore : “Usciranno i figli di don Antonio, i parenti, i compari di don Arturo, i comparielli, gli amici, i protettori. Sarà una carneficina, una guerra fino alla distruzione totale. Meglio così”.          

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