Regia di Emmanuel Carrère vedi scheda film
Crisi, precariato, disoccupazione, flessibilità. La nota scrittrice Marianne Winckler (interpretata da una Juliette Binoche senza un filo di trucco e in stato di grazia) non ne può più di sentire queste parole senza poter dare a esse un significato. Così lascia Parigi per spostastarsi nel nord della Francia e andare alla ricerca di uno dei tanti lavori poco qualificati della gig economy. Assunta da una ditta di pulizie, capisce cosa vuol dire pulire i cessi, rassettare 60 letti in 90 minuti all’interno di una nave per turisti, non sentirsi più le braccia e la schiena a fine giornata. Ma capisce anche in quali condizioni estreme possa vivere Christèle (Lambert, straordinaria attrice non protagonista alla pari di tutte le altre), una giovane donna con figli a carico che, progressivamente, diventa il centro del libro che Marianne scrive tra un’incombenza e un’altra, sempre con la paura di venire scoperta.
Leggo sul numero 14 di FilmTv che Tra due mondi «è un film sull’impostura» (Marzia Gandolfi). L’unica impostura è quella di giornalisti che si professano tali senza avere il minimo rudimento di cosa sia la ricerca etnografica. Il film di Emmanuel Carrère, scrittore che ha adattato per il grande schermo Le quai de Ouistreham della giornalista e scrittrice Florence Aubenas e già autore dell’apprezzato L’amore sospetto, racconta quella che si chiama osservazione partecipante dissimulata: una tecnica di studio che – si parva licet – hanno usato Lévi-Strauss, Malinowski, Goffman, Kluckhohn e tantissimi altri. Al di là delle precisazioni metodologiche, la grandezza del film di Carrère sta nell’essere riuscito a rendere tangibile il mondo dei lavori cosiddetti DDD (ossia dirty, dangerous and demeaning: sporchi, pericolosi e umilianti) e, al tempo stesso, nell’aver saputo raccontare l’inconciliabilità tra due mondi – quello di chi viene da una condizione privilegiata e quello di chi è costretto a sbattersi per sopravvivere e garantire un pasto caldo ai figli – che ha come primo ostacolo la profonda diversità tra orizzonti cognitivi diversi. È in ragione di questa diversità che Christèle – in un finale davvero memorabile che da solo vale il prezzo del biglietto – non capisce che l’opera divulgativa di Marianne è un servizio a tutti quelli che si trovano nella sua condizione. Ed è proprio in quel finale, nella non-azione di Marianne, che possiamo leggere in filigrana tutta la distanza – ancora una volta, di metodo – tra il glamour di un’operazione giornalistica narcisistica e un po’ civettuola e l’operazione scientifica di carattere antropologico.
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