Regia di Jeremy Gardner, Christian Stella vedi scheda film
The Ten Year Itch, or: Big Bad Wolf/Bear/Lion, aka the Porcupine Man, of Georgia.
L’ursone (Erethizon dorsatum), roditore eretizontide, non è presente nella check-list dei mammiferi della Georgia (è segnalato ad esempio nei settentrion-confinanti Tennessee - ivi vagante per i campi, come c’era finito, chissà? - e North Carolina), e questo vale per tant’altra roba, tipo Miami (che difatti sta in Florida, fortunella). Però in Georgia vi sono altresì varie ulteriori cose, come ad esempio, che so, i vigneti (da non crederci, eh), e forse (perché nel dubbio che fai, non ce lo metti? E infatti eccolo: toh!) pure il BigFoot. Ma in Georgia ci stanno anche, accoppiati senza figli né anelli a sancire alcunché, Hank (Jeremy Gardner) e Abby (Brea Grant), 30/40enni. Solo che adesso Abby è sparita da più di un mese senza dare sue notizie né ad Hank né al di lei fratello e di lui cognato in farsi/forse/stasi/stand-by Shane (Justin Benson), e ad Hank rimangono solo l’amico cazzone da bar Wade (Henry Zebrowski) e un mostro carnivoro (mangiagatti) spinosamente irsuto (tra “Beasts of the Southern Wilde” e “Monsterland”) che quasi ogni sera (performato da Keith Arbuthnot) tenta di sfondare la soglia della magione di famiglia circondata da alberi secolari adornati di epifite.
Affrontare a “scatola chiusa” - ovvero conoscendone solo la confezione, vale a dire la splendida locandina, e il fatto ch’è co-prodotto da Justin Benson (qui per l'appunto anche attore) ed Aaron Moorhead - un lavoro come “After Midnight” (già “Something Else”), opera terza scritta e interpretata da Jeremy Gardner e da lui anche co-diretta e co-montata col fido direttore della fotografia Christian Stella [come per la precedente “Tex Montana Will Survive!” (da reality a survival), mentre per l’esordio di “the Battery” (zombie-movie on the road) alla regìa era da solo], significa rischiare d’incappare nel classico film dal bel manifesto e stop, e invece oltre al poster…
…c’è di più: innanzitutto – al di là di, oltrepassato il giro di boa, due gran bei piani sequenza: il primo di tre minuti, in solitaria, con camera semi-fissa in leggerissimo movimento all’indietro, e il secondo di un quarto d’ora, in coppia, con MdP in lento avvicinarsi per i primi due terzi e in altrettanto lento allontanarsi per l’ultimo terzo, e in mezzo ad essi un bel plot twist perturbantemente illuminista, prima del finale… che non poteva ch’esser tale… razionalmente fantastico – le musiche originali, a cura di the Parlor (Eric Krans e Jen O’Connor) e the Hummingbirds (Stephen Grant Wood e Rachel Wood) messe nel juke-box extradiegetico o diegeticamente eseguite live.
Forse se non il suo difetto magari il suo limite è che si percepisce distintamente, nonostante la controparte sia impersonata da Brea Grant (prima sceneggiatrice, regista ed interprete di “Best Friend Forever”, un road-movie apocalittico, poi sceneggiatrice e protagonista del “Lucky” di Natasha Kermani, e in seguito ancora sceneggiatrice e regista di “12 Hour Shift” con Angela Bettis e infine, ad oggi, regista di “Torn Hearts”: questi ultimi tre assimilabili quali eterogenei mild-horror), ch’è un film scritto… rullo di tamburi… da un maschio. A meno che questa volutamente esibita andro-scrittura (incidentalmente iper-romantica) non sia parte essa stessa del messaggio e della morale: allora si tratterebbe di un’etica veicolata magistralmente. In zona - metacinematografia a parte - "Black Bear" (o, per l'incarnata metafora esibita della proiezione psicologica dubbiosamente fattasi concreta, qui declinata come "assenza: più acuta presenza", il tempestosamente scuotilancico "Forbidden Planet" by Wilcox/MGM).
Senti, Hank, non esiste una dannata città in tutto questo dannato mondo in cui non ci sia qualcuno che dica di aver visto qualcosa che non può spiegare. Ogni lago ha un mostro lacustre. In ogni foresta c'è una scimmia grande e pelosa. Cristo, potrei chiedere a un centinaio di persone, solo in questa città, e la metà di loro dirà di aver visto un ufo o un fantasma. Merda, la maggior parte di loro dirà di averli visti entrambi, nonostante 500 anni di scienza dura non abbiano trovato nemmeno un briciolo di prova per nessuno dei due. Neanche un frammento. Ma questo è ciò che facciamo. Sai, riempiamo gli spazi vuoti di ciò che non capiamo. Questa è la natura umana. Abbiamo lasciato che la nostra immaginazione disegnasse volti sui rumori nel buio fin da quando vivevamo nelle caverne. E disegniamo sempre denti aguzzi.
* * * (½) ¾
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