Regia di Albert Serra vedi scheda film
Albert Serra nel girone delle Manie, della Merda e del Sangue (Dante, De Sade, Pasolini), un Borowczyk attonito ed esangue, una rassegna inenarrabile di oscenità e di brutture, al bando qualsiasi moralità - letteraria, cinematografica, artistica. Un film estremo che spinge il linguaggio cinematografico verso limiti inesplorati, non solo nella messa in scena ma anche nell'ostinazione dello sguardo, nella creazione dei campi, nella resa delle percezioni e delle pulsioni deviate che legano i tanti personaggi che poco prima della Rivoluzione Francese si riuniscono in un bosco tedesco per soddisfare con delle neofite di un convento tutte le loro voglie carnali più indicibili. Un procedere inarrestabile ma anticlimatico condanna Liberté a partire da una sequenza di momenti più letterari in cui i nobili libertini si raccontano quali sono le nefandezze che vorrebbero compiere, e a finire in un'infinita orgia di organi impotenti, sadismo, gemiti e urla. Eppure nel film di Serra non si percepisce mai un "arrivo" ad una destinazione, come per esempio il soddisfacimento di una fantasia, ma è come se piuttosto ci si fermasse sempre prima, prima dell'orgasmo, prima della catarsi. L'apice del godimento è sempre interrotto, allontanato, impossibile da raggiungere. Le donne sono insaziabili e insoddisfatte, gli uomini sono appunto impotenti e rallentati, troppo prudenti quando dovrebbero (e vorrebbero) sfogare fantasie oscene contorte. La regia, che non disdegna primi piani di genitali (maschili e femminili), nonché altri tipi di dettagli, non è mai una regia voyeuristica che dà in pasto allo spettatore quello che vorrebbe vedere di proibito. La regia è invece la dimostrazione più lucida e disperata di come la messa in scena dell'osceno non sia necessariamente indicatrice di pornografia, di sexploitation, addirittura di erotismo. Non si respira davvero nulla di sessuale e di attraente nel film di Serra. Si respira invece la razionalità con cui i potenti delle 120 giornate di Sodoma eseguono i loro riti, tentando di compiere l'atto più assurdo e atroce che si possa compiere, cioè ordinare razionalmente gli istinti più irrazionali. Simile destino ha il film di Serra, che si pone sempre a una distanza verrebbe quasi da dire "anatomica" dai corpi, dalle parti, dalle nudità. E altrettanto razionale - e letterario - è il modo in cui sfrutta ogni singolo possibile interstizio del campo visivo, come quando inquadrando un insieme di alberi i personaggi possono comparire e scomparire a loro piacimento tra i tronchi e gli arbusti, annullando la profondità di campo e rievocando in qualche strano modo la sensazione della carta stampata. Questa operazione raggiunge la sua vetta massima nel momento in cui osserviamo il pdv dello spione con il cannocchiale, una soggettiva che ci viene rivelata solo dopo un po' di tempo e che ci spiega l'improvvisa apparizione di una patina sporca sulle immagini. Ma tutto ciò è naturale conseguenza di un montaggio che cerca di rendere al meglio in generale le soggettive dei presenti: ogni atto osceno ha sempre un controcampo, cioè a dire lo sguardo scrutante di qualcuno che nel buio della notte cerca di dare godimento a se stesso, spesso non riuscendoci.
Un incredibile film "antipornografico" di frustrazioni e di coiti interrotti, che mette insieme Cinema, Letteratura e Arte Performativa, in una sintesi affascinante che non si ritrova in nessun altro autore. Viva Albert Serra!
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