Regia di Jan Komasa vedi scheda film
…Mi han detto Che questa mia generazione ormai non crede In ciò che spesso han mascherato con la fede Nei miti eterni della patria o dell'eroe Perchè è venuto ormai il momento di negare Tutto ciò che è falsità, le fedi fatte di abitudine e paura… (Francesco Guccini)
Molto frequentemente il cinema polacco si divide su due temi portanti, uno di matrice storica che analizza il passato del paese per cementare il forte senso di comunità. L’altro che contempla l’eterno conflitto tra laicismo e spiritualità, cerca di partire da punti di vista lontani tra loro per avvicinarli ad una visione sociale aderente alla realtà odierna, senza confinare pregiudizialmente valori ideali tanto diversi. Corpus Christi percorre questa seconda via, già segnata peraltro dai nomi più celebrati a livello internazionale di quei registi usciti nel corso degli anni dalla mitica scuola cinematografica di Lodz, capace di sfornare dei veri e propri maestri che almeno a livello europeo hanno imposto un linguaggio visivo, espressivo e di contenuto davvero di alto profilo. Daniel, il giovane protagonista, detenuto in un riformatorio si avvicina alla religione carpendo la fiducia e l’amicizia del cappellano dell’istituto. A completamento del programma di riabilitazione e di reinserimento sociale ottiene una libertà non troppo vigilata, e attraverso un equivoco si sostituisce al vero parroco di un piccolo paese dove entrerà talmente nella parte dall’interpretare il suo ruolo in modo efficace e anticonvenzionale. Ma chi è davvero Daniel e cosa rappresenta? Il suo sentimento religioso è autentico o nasconde una scappatoia per guadagnarsi una vita più facile? Il regista Jan Komasa, arrivato al suo terzo lungometraggio, affronta la prova della maturità, scegliendo di interessarsi alla relazione tra Daniel e la comunità, che invece giocare con l’ambiguità del personaggio che si presterebbe in modo perfetto ad essere sfruttato dentro i consueti meccanismi della lettura mainstream più spettacolare. Al regista interessano le conseguenze dell’interazione tra i vari soggetti, auto condizionati da una fede religiosa consolatoria, che in qualche misura li aiuta a sopportare una dolorosa ferita provocata da un incidente nel recente passato, in cui perirono sei giovani del posto. Il falso prete diventa il testimone dell’ipocrisia, della chiusura mentale, del rancore di comodo della piccola comunità, incapace di accettare e di rielaborare il terribile avvenimento. Ma il giovane è la chiave giusta per scardinare quel muro di gomma, detiene le parole e i gesti che sanno toccare le persone tanto è grande la sua fede nella libertà. Il verbo che da religioso diventa una semplice applicazione concreta di solidarietà umana prova così ad avvicinare la ragione, la tolleranza e la fatica della convivenza. Il peso di un dolore indicibile andrà condiviso ma soprattutto sarà Daniel ad incanalare su di sé una volta rientrato nei ranghi della sua condizione normale, tutta la negatività della quale la piccola realtà rurale si è liberata. Come fosse la figura cristologica di un giovane che chiede di entrare in nuovo mondo migliore dove non ci si può esimere dal farsi carico di quello che lo ha preceduto. Con la fede nell’uomo, ma anche con tanto coraggio.
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