Regia di Jan Komasa vedi scheda film
Pur sentendo un’effettiva vocazione, Daniel non può diventare prete: è infatti appena uscito dal carcere, dopo aver ucciso preterintenzionalmente un ragazzo suo coetaneo. Però Daniel può spacciarsi per don Tomasz e farsi ospitare momentaneamente dal prete di un paesino di campagna. Quest’ultimo, dovendo assentarsi per qualche giorno, lascia quindi la sua parrocchia nelle mani di don Tomasz.
La storia di Corpus Christi può tranquillamente definirsi una favoletta moderna; il finale non è lieto, ma certo è foriero di una morale. La sceneggiatura di Mateusz Pacewicz racconta infatti le vicende di un ragazzo, Daniel, costretto ad attraversare molte prove – concrete o meno che esse siano – per raggiungere la sua emancipazione dal senso di colpa che lo attanaglia, un senso di colpa dettato da un’indole canagliesca inestirpabile e, soprattutto, da un destino che ha deciso per lui rendendolo suo malgrado un assassino. Se il protagonista Bartosz Bielenia è abbastanza convincente e attorno a lui si muove bene un cast adeguatamente composto (Eliza Rycembel, Zdzislaw Wardejn, Aleksandra Konieczna, Leszek Lichota, Lukasz Simlat), se la regia di Jan Komasa – al suo terzo lungometraggio per la sala – è coinvolgente al punto giusto e se risultano ottimali i lavori di Przemyslaw Chruscielewski (montaggio) e Piotr Sobocinski Jr. (fotografia), tanto che la duratache si aggira attorno alle due ore non pare affatto eccessiva, le principali problematiche del film vanno però ricercate nella scrittura e, più nello specifico, nell’evidente mancanza di psicologia non solo negli snodi centrali della trama, ma anche nei rapporti fra i personaggi. Per esempio: la figura del sindaco è fortemente stereotipata; appena incontra Daniel lo ammonisce di non osare neppure parlare della vedova, o la pagherà cara. Immediatamente Daniel contravviene ai suoi ordini e il sindaco non alza un dito. Allo stesso modo il rancore di Lidia verso Daniel e soprattutto verso la vedova attraversa fasi di alti e bassi mai effettivamente motivate, rendendola un personaggio schizofrenico. La storia è piena di questi elementi di disturbo e si chiude con un interrogativo ancora più pressante: se realmente il protagonista non può (o non riesce) a fuggire da sé stesso, che senso ha tutta la sua ‘conversione’ in perfetto cristiano? Come è possibile che Daniel, al mutare dell’ambiente circostante, muti in maniera tanto drastica, camaleontica carattere, comportamento e valori morali? 4,5/10.
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