Regia di Stanley Kubrick vedi scheda film
La fredda magia visiva di Stanley Kubrick trasforma il “mai visto” in un’esperienza ipnotica dall’estetica graffiante e perversa. In Arancia meccanica, come in Shining e in Eyes Wide Shut, l’uomo è equiparato a un topo in gabbia, che mal si adatta alle rigide geometrie dell’ambiente. La mente deviata è come un’eruzione cubista dentro la sagoma di un ritratto: i contorni delle figure sono fermi e netti, mentre, al loro interno, le anime si contorcono sotto l’effetto di una scarica elettrica. La stessa luce è come prigioniera dell’aria immobile, confinata dentro macchie di colore e sguardi allucinati. La violenza cieca è parte di un’energia che ha perso il senso dell’orientamento, e viene sparata sulla realtà come il getto colorato di una bomboletta di vernice spray. La fissità dello sguardo tramuta il tenue bagliore dell’incubo in una sorta di grigia incandescenza, che dona alle immagini una vivida patina di perfezione, dietro cui sta in agguato un demone pronto ad aggredirci e sorprenderci. Il mondo del futuro prefigurato dal romanzo di Anthony Burgess è un paesaggio ermetico punteggiato di inquietanti arredi; l’istinto qui si fa simbolo e struttura, come un impulso intrappolato in una colata di cemento. Kubrick scolpisce con la telecamera, traducendo pensieri ed azioni in pose di pupazzi in materiale plastico: i suoi personaggi sono, nel contempo, modelli e burattini, rappresentanti di una tipologia umana e obbedienti al ruolo imposto loro da una regia invisibile, che regola la società annientando il libero arbitrio. Il potere, infatti, quando raggiunge i massimi livelli, non è più soltanto coercizione; è, invece, una mano creatrice che plasma gli individui secondo la casella che, nello schema generale, essi sono destinati ad occupare.
L’obiettivo che deforma le prospettive è come la lente di un orologiaio, che scruta gli oscuri ingranaggi di un cervello in avaria; l’alienazione non è uno spettacolo per tutti, e occorre guardare attentamente per capire la dinamica del guasto. “Vedere” è l’imperativo categorico del cinema di Kubrick, e il diktat è quello di tenere gli occhi costantemente spalancati, per cogliere il fuggevole momento in cui l’evanescente traccia del perché attraversa, come una folgorazione, il grande schermo.
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